
Emanuele Ricucci è giornalista e saggista. Non ancora quarantenne, ha già firmato un numero considerevole di volumi. È nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Archeoares, la sua ultima fatica, Rivoluzionarie. Storie di grandi donne per una grande Italia. Il volume è arricchito dalla prefazione di Lucia Esposito (pp. 121, euro 13,00). Si tratta di un testo controcorrente, al centro del quale stanno sette figure femminili, meglio, sette straordinarie italiane. Di alcune di esse, la vulgata storiografica vigente ha sottaciuto il valore del contributo fornito in momenti dirimenti della storia d’Italia, di altre, invece, non sempre ha riconosciuto il tratto innovatore e rivoluzionario. Badi il lettore, il testo di Ricucci non è un lavoro meramente storiografico. Le pagine di Rivoluzionarie, infatti, attraverso la ricostruzione cronachistica delle vicende nelle quali queste donne furono implicate, entrano nelle vive cose del loro vissuto quotidiano, interrogando in profondità l’animo femminile connotato da naturale capacità euforizzante. Utilizziamo questo aggettivo nel senso greco: esso rinvia al “ben sopportare” i dolori e i drammi dell’esistenza, a vivere “serenamente”, anche in contingenze avverse, la tragicità della vita, tratto connotante ontologicamente il “femminile”.
Dalla lettura del volume si evince la non comune qualità affabulatoria della prosa di Ricucci. Essa è risultato dell’empatia con la quale l’autore presenta la grandezza, tutta italiana, delle sette protagoniste del narrato. Lo fa in modalità, in un certo qual modo, diaristica, intima, ma tenendo in debito conto la bibliografia storico-critica prodotta in tema, presentando bervi spaccati della storia d’Italia dell’età nella quale le protagoniste vissero. Il primo “medaglione” è dedicato a Marzia degli Ubaldini che, nel 1300, combatté per difendere Cesana dall’assedio delle truppe pontificie. Lo fece a tutela dello Stato retto dal marito, Francesco degli Oderlaffi, signore di Forlì e Cesena. Marzia fu sollecitata all’azione da questa pressante domanda: «Patria, casa della vita che non può essere ceduta. Come si può concedere l’albergo naturale, come si può permettere l’abuso del ventre materno?» (p. 19). Il suo coraggio risulta simile alla potenza dello zefiro primaverile, atto a rinnovare ciclicamente la vita. Del resto, la donna era sostenuta, come si evince dal nome Marzia, dal dio della guerra e, allo stesso tempo, dall’Amore che discese su di Lei della divina Venere. Quella di Marzia degli Ubaldini fu femminilità votata alla grandezza.
Non dissimile fu l’azione realizzata a Firenze da Anna Maria Luisa de’ Medici, ultima discendente della dinastia che a Careggi permise il costituirsi dell’Accademia neo-platonica. Questa donna firmò la “Convenzione del 1737” sottoscritta anche dai nuovi Signori di Toscana, i Lorena, con i quali: «dispose che tutte le collezioni dei Medici restassero a Firenze» (p.10), realizzando un: «atto di materna cura per la futura memoria d’Italia» (p. 31). Mise in salvo, in tal modo, il Genius loci della città di Dante, Firenze, la “sempre fiorente”, per determinare un Nuovo inizio della sua storia e di quella d’Italia. Ricucci, inoltre, nelle pagine del libro, ridà vita alla nobile figura di Elena Lucrezia Cornero Piscopia e alle travagliate vicende che la condussero a diventare prima donna laureata al mondo. Ai dinieghi iniziali delle autorità accademiche e della cultura del tempo, rispose con affermazione volitiva, riuscendo nel proprio intento. Chiosa l’autore: «Siamo di fronte a un confine mai valicato prima» (p. 49), da una donna. Properzia de’ Rossi, in piena Rinascenza fu, invece, latrice di un primato diverso, fu prima scultrice italiana a essere ammessa a partecipare ai lavori della cattedrale di San Petronio a Bologna, tanto da venir ricordata da Giorgio Vasari ne, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti.
Francesca Caccini, fu, fin da fanciulla, di eccellente e polivalente ingegno, poetessa che versificava in latino, virtuosa del liuto, del clarinetto e del clavicembalo, si adoperò, perfino, per l’apertura di una scuola di canto: «Per questo concepire e realizzar profondamente il processo che conduce, […] a una coltivazione interiore, che si esprime anche attraverso l’arte» conseguì: «il più potente antidoto alla finitezza, all’(in)utilità d’aver vissuto» (pp. 75-76). Al suo fianco, per meriti artistici, va posta Sofonisba Anguissola. Pittrice attenta ai dettagli, nei suoi ritratti mise un luce un’attenzione psicologica non comune per gli stati d’animo dei personaggi rappresentati su tela e, per tale ragione, fu ammirata nelle corti d’Europa. La donna fu: «Di sicuro […] un raggio di luce dell’arte che trova traduzione in ogni tempo […] il cui frutto non si decompone con l’artista» (p. 108).
Infine, ma non ultima, Matilde Serao. Nacque alla fine dell’Ottocento ma, per sensibilità, è, di fatto, nostra contemporanea. Fondò e diresse un quotidiano. Figlia di un italiano e di una greca, nutrì profonda ammirazione per la civiltà mediterranea. Chiosa l’autore: «È figlia del contrasto e del lungo orizzonte del mare nostrum, che offre sempre la speranza di un nuovo viaggio, di un rinnovato inizio» (p. 94). Si convertì al cattolicesimo nel 1872, fu candidata, in più occasioni, al Premio Nobel, ed ebbe in spregio, da donna realizzata qual’era, le prime avvisaglie del montante femminismo. I sette “medaglioni” raccolti da Ricucci in, Rivoluzionarie, mostrano, nell’analisi del femminile, un incontestabile primato italiano, che fa mostra di sé anche oggi oltre gli steccati eretti della cultura mainstream dominante.