
Spartaco Pupo è studioso davvero prolifico. È nelle librerie la sua ultima fatica, La destra e lo Stato. Storia di una cultura dal primo Novecento a oggi, comparsa nel catalogo di Eclettica Edizioni (per ordini: 0585/1817914, info@ecletticaedizioni.com, pp. 293, euro 16,00). Si tratta di un saggio di grande rilievo nel quale l’autore conferma di essere uno degli intellettuali più rappresentativi del conservatorismo italiano. Nelle sue pagine mostra, con persuasività d’accenti, con ampia conoscenza delle fonti e acribia esegetica, che il vituperato (dalla vigente cultura mainstream) stato nazionale: «sintesi insuperata tra la dimensione burocratico-amministrativa e quella spirituale-culturale» (p. 5), non è affatto un riferimento politico superato, fuori dalla storia dell’età della globalizzazione ma, al contrario, risulta essenziale per uscire dallo stato presente delle cose. La fiducia in tale istituzione, ricorda Pupo, ha fortemente segnato di sé il patrimonio ideale della destra italiana a muovere dal post-fascismo del MSI ed, per tal via, giunto a Fratelli d’Italia.
L’approccio metodologico seguito dallo studioso, se abbiamo ben inteso, è quello proprio della “Storia delle idee”, mirato a registrare non solo l’elaborazione dottrinaria di filosofi e politologi, ma attento all’interazione di quest’ultima con la concreta azione politica esercitata, nelle diverse fasi della sua storia, dalla destra italiana. L’incipit del volume rappresenta la pars destruens delle intenzioni teoriche di Pupo. L’autore chiarisce l’inanità delle tesi universaliste marxiste e liberali, in un confronto serrato con le divergenti posizioni sovraniste. Le stesse tesi cattoliche, in particolare quelle di Sturzo, che parlò di Stato sussidiario, nel quale si realizzerebbe il primato della persona, sono ricondotte da Pupo, con pertinenza argomentativa, alla loro matrice liberale, all’idea di Stato minimo. Infine, l’istanza federalista è esperita quale esempio di “decentrismo”, di effettiva perdita della sovranità da parte dell’istituto statuale. Oggi, il grande nemico dello Stato nazionale, ricorda il Nostro autore, è rappresentato dal cosmopolitismo dei diritti, dalla cultura Woke, neganti qualsivoglia appartenenza identitaria.
Nella parte successiva del testo, Pupo presenta, in termini organici, il tema della difesa dello Stato nazionale in pensatori e giuristi che furono vicini al fascismo. Tra gli altri, Rocco, Costamagna, Evola, Maraviglia. La Statologia di Rocco diede: «impulso alla difesa morale dello Stato […] in grado di guidare la società italiana nella lotta contro ogni nemico» (p. 50), interno ed esterno. Posizione, quella del giurista, che guardava alla “solidarietà nazionale” che, al di là degli egoismi di classe, avrebbe dovuto esser perseguita dallo Stato corporativo. In quel particolare frangente storico, il Codice Rocco rappresentò: «lo strumento principe della civilizzazione statuale della società italiana» (p. 52). Costamagna, a sua volta, si fece latore di una scienza della politica atta a mettere in scacco la visione meramente giuridica dello Stato e, per questo, capace di porsi quale: «disciplina regolatrice di tutte le materie che avevano a cuore lo studio dell’uomo nella sua attività teoretica e pratica e rivendicavano quella “funzione direttiva” da sempre esercitata dalla teologia» (p. 59). Sulla scorta di tali acquisizioni teoriche, lo stesso Evola, aristotelicamente, riconobbe allo Stato la funzione di “forma” rispetto alla materia-nazione, oltre qualsivoglia nazionalismo etnico. Lo Stato di Evola si configura quale “organismo spiritualizzato” mirante all’Imperium, sintesi di potere regale e sacerdotale: «Evola ripone tutte le sue speranze in uno Stato che non dovrà procedere da alcun elemento “inferiore” per trovare la sua ragion d’essere esclusivamente in principi superiori, spirituali, metafisici» (p. 63). Del resto, anche per Maraviglia: «Solo lo Stato era (sarebbe stato) in grado di esprimere la volontà piena e complessiva della Nazione» (p. 79).
Capitolo dirimete, attraversato da evidente empatia dell’autore per le tesi espresse dal filosofo, è quello dedicato al pensiero politico di Gentile. Questi era fermamente convinto di una cosa: ciò che realmente stava a cuore al fascismo era l’idea di una “grande Italia”. Per il teorico dell’attualismo lo Stato: «ha un valore assoluto […] fa “uomo l’ uomo” […] è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un’idea» (p. 98). Lo Stato vive nel nostro foro interiore, in interiore homine. Qui rinveniamo il “Noi”, la nostra appartenenza comunitaria, il nostro esser parte di una storia, di una tradizione, di un destino comune. Per questo, la libertà vive in simbiosi con l’autorità statuale in quanto: «non esiste uno Stato esterno all’individuo, né un individuo esterno allo Stato» (p. 100) e ancora: «la res publica “prima di tutto” è per l’individuo sua propria res» (p. 105). Non dissimile, ricorda Pupo, la posizione di Pound. Il poeta sostenne che Mussolini sarebbe stato l’artifex di una nuova fase della civiltà, oltre l’individualismo finanziario-usuraio, nella quale, ruolo di primo piano, avrebbero avuto i produttori, gli artisti e i creatori di idee.
Tale patrimonio ideale si irradiò dalla RSI ai protagonisti della vita politica del MSI, il cui dibattito interno l’autore analizza minutamente, e di lì giunse alle formazioni partitiche successive della destra italiana. Particolarmente significative, oltre che eticamente edificanti, sono le pagine dedicate al giudice Borsellino e alla sua nobile difesa dello Stato. Questi: «ebbe a rimarcare la necessità di “un profondo rinnovamento delle istituzioni e della politica” […] accompagnato da un impegno culturale diretto alla valorizzazione del ruolo delle istituzioni pubbliche» (p. 180). Il magistrato siciliano pagò questo suo impegno, proprio come Gentile, con il sacrificio della vita. Nel 1994, con la vittoria elettorale del centro-destra, si riaccesero le speranze in una ripresa della tradizione politica statualista. Esse andarono presto deluse: «Berlusconi […] contribuì in prima persona alla frantumazione del progetto da lui stesso creato» (p. 223). Nella attuale congerie storica, ci si attende che la destra di governo sappia far valere la nostra sovranità nazionale.
Pupo, in tema, è probabilmente più ottimista di chi scrive. A noi pare che la politica estera, ma non solo, del governo in carica, smentisca tale aspettativa. Nonostante ciò, La destra e lo Stato è libro importante per la sua puntuale ricostruzione storico-teorica e per la proposta politica in essa implicita. Ci auguriamo, pertanto, che la sua lettura riapra, finalmente, il dibattito politico a destra…
*La destra e lo Stato. Storia di una cultura dal primo Novecento a oggi, di Spartaco Pupo, Eclettica
Il pensiero conservatore, liberal-conservatore, conviveva a fatica con il fascismo di Mussolini fino al 1940. Basta rileggere il Diario di Ciano sui ripetuti e frequenti attacchi del duce alla borghesia italiana. Quel patto degli anni ’20, nel nome della Nazione e dei suoi superiori interessi, sempre più precario, si ruppe a luglio 1943, definitivamente. La ultime cose scritte da Mussolini all’inizio del 1945 sono chiare: si augurava una vittoria di Stalin ed il passaggio dell’Italia della RSI al ‘socialismo’ senza ulteriori mediazioni liberali che giudicava obsolete, anacronistiche. Quindi la illusoria ‘politica del ponte’ per lasciare il potere (lo Stato) ai socialisti al momento della sconfitta. Di questa, a mio modesto avviso, ‘cecità’ ed ingenuità mussoliniana, farà le spese nel dopoguerra anche il MSI con una velleitaria politica di ‘destra sociale’, non solo irrealizzabile, ma pure carente di vero appeal ideologico… FdI (come AN) non è l’erede di quelle tarde velleità del fascismo sconfitto ed irriproducibile…
Occorrerebbe chiarire che il concetto di “destra” non ha niente a che vedere col “fasciocomunismo” che qui va di moda e che vede con simpatia Putin e male il cosiddetto “Occidente” (di cui in realtà l’Italia ha sempre fatto parte, dall’Antichità in poi). La politica estera del governo Meloni è in realtà ineccepibile se non per chi ancora fantastichi su nostalgie fasciocomuniste alla Thiriart. Il problema è all’interno, dove lo Stato viene svuotato di attribuzioni e di identità, p. es. riducendo al minimo le competenze delle prefetture e delle soprintendenze in fatto di toponomastica, lasciata all’arbitrio del Comuni perché “eletti” e quindi automaticamente “buoni a prescindere”, secondo il democraticismo progressista imperante.