
Rana Foroohar, vicedirettrice del Financial Times ha pubblicato un libro dal titolo “La globalizzazione è finita” da febbraio anche nelle librerie italiane per Fazi Editore. Ma non è l’unica che ultimamente muove questa critica, ormai il coro è sempre più ampio ma sbaglia chi pensa che le cause sono state scatenate da Trump o da Putin.
La fine della globalizzazione è un processo che parte da lontano, almeno dall’11 settembre, con l’attentato delle Torri gemelle, se vogliamo raffigurare una data, perché è da quell’evento che gli americani si sono resi conto che il mondo non vuole uniformarsi a loro. Ma se la globalizzazione è davvero finita, e lo è, questo non significa che sia finito anche l’impero americano che, benché stanco, ancora primeggia. Bisogna capire che la globalizzazione altro non era che la narrazione, il vestito, la sovrastruttura che gli Usa si sono dati per legittimare il loro primato ma di fatto la loro potenza ancora non è affatto in ritirata, anzi, si sta riorganizzando per le attuali e prossime sfide che passano sempre dal dominio dei mari.
Il primato americano
Se gli Usa vogliono mantenere il loro primato, al di là di ogni narrazione, devono poter governare il commercio marittimo e questo lo sanno bene. Non è un caso, infatti, che fra le prime roboanti dichiarazioni di Trump siano finiti il controllo dello Stretto di Panama e la Groenlandia come porta verso la rotta artica che, secondo stime, sarà nei prossimi anni una delle principali rotte commerciali. Secondo lo stesso schema, negli ultimi giorni si è intensificata l’azione bellica americana sugli Houti in Yemen per “liberare” lo stretto di Bab al-Mandab che, passando dal canale di Suez, collega il Mediterraneo con il Mar Rosso fino al Golfo di Aden e all’Oceano indiano. Così come l’indipendenza di Taiwan è strategica per gli Usa perché di fatto si pone come un muro per i cinesi e le loro velleità marittime.
Crollata, quindi la sovrastruttura, resta il re a nudo ma non per questo impotente. Certo con le sue difficoltà e la sua stanchezza ma ben consapevole della sua vitale missione imperiale in un contesto mondiale nuovo e che impone cambiamenti tattici anche significativi ma non per questo riduttivi.