
Paolo Zappa, piemontese nato nel 1899 e deceduto nel 1957, è stato un giornalista e scrittore prolifico quanto audace. Del suo lavoro Ezra Pound aveva grande considerazione. È la produzione saggistica: La legione straniera (1932), Fra i lebbrosi (1932), L’ergastolo navigante: la Martinica (1934), L’«intelligence service» e l’Etiopia (1936), Alla Guiana. Gli evasi dell’inferno rosso (1937). Zappa si è cimentato anche con il romanzo: Avrà il sole (1940), Il sergente Klems, (1942, portato sullo schermo nel 1971 nel film omonimo diretto da Sergio Greco) e, soprattutto, il voluminoso Bùrja, pubblicato da Giulio Einaudi nel 1945. Zappa è un viaggiatore alla perenne ricerca dell’avventura. Il pericolo accompagna di sovente le sue peregrinazioni. È un inviato di gran talento, dotato di scrittura brillante. Dunque, un giornalista in grado di guardare la realtà non dalla prospettiva ristretta dalla limitazione nazionale, ma dall’ampia conoscenza diretta del contesto internazionale. Un giornalista con la vocazione del narratore. Di recente Luca Gallesi per le edizioni OAKS ha riportato in vita due libri di Zappa: La legione straniera nel 2022 e L’ergastolo navigante nel 2023. Ora è la volta di Oro, cannoni e democrazie (pagine 380, euro 27). Un saggio polemico dai toni accesi, uscito nel 1938, e indirizzato contro la Francia della Terza Repubblica, incarnazione del «malessere democratico». L’anno 1938 per l’Italia fascista rappresenta il giro di boa. Si sfilacciano i rapporti, non certo idilliaci, con le democrazie europee (Inghilterra e Francia), messi a dura prova prima dalla guerra d’Etiopia (1935), poi dalla guerra di Spagna (1936). Mussolini è sempre più attratto dalla calamita germanica. Hitler nel maggio 1938 è accolto trionfalmente in Italia. In settembre Mussolini a Monaco di Baviera si presenta come garante di una pace duratura. In realtà asseconda Hitler nella sua strategia, al di là delle apparenze e senza troppi infingimenti. Nel mezzo, in luglio, c’è l’approvazione delle «leggi razziali». Mussolini, e larghe fasce della cultura fascista, non sopportano la Francia. Ai loro occhi rappresenta la vecchia modernità, il passato. Il ventre molle dell’Europa. L’avvenire e la nuova modernità, invece, le rappresentano la gioventù incarnatasi nel fascismo. La Francia è uscita vincitrice dalla Grande Guerra. Sicura di poter orientare e guidare la politica europea – l’approvazione del Trattato di Versailles (1919) ne è stata la prova tangibile – in realtà è proprio nel banco di prova del difficile contesto del dopoguerra che affiorano, con evidenza, le fragilità francesi. Zappa sin dalle prime righe annuncia l’ostilità nei confronti della «vecchia usuraia». La Terza Repubblica da sempre, in guerra come in pace, è dominata da banchieri (l’oro) e fabbricanti di armi (i cannoni). Sono loro (seguendo concreti interessi) a determinare le scelte della politica e delle alleanze. Terminato il primo conflitto mondiale, la Francia si è arroccata su posizioni di inflessibile ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica. Poi, con l’ascesa di Hitler al potere nel 1933, si è avvicinata a Mosca, arrivando addirittura nel maggio 1935 a firmare a Parigi un patto franco-sovietico. La mescolanza di oro, cannoni e democrazia, ha fatto sprofondare la Terza Repubblica nella corruzione imperante. Il danaro è il principale motore della vita politica. Zappa descrive come costruttori di armi e banchieri (pubblici e privati) si sono trovati uniti nel corso della Grande Guerra. Finito il conflitto si sono separati, nel contesto di una pace armata. La moderna società industriale assegna al capitale una funzione primaria. Pertanto, sono i banchieri a condurre le danze. Con risultati devastanti. Prima lo scandalo finanziario di Panama (1892), poi lo scandalo Stavisky (1934), hanno mostrato il grado di corruzione della classe politica democratica. La vittoria del Fronte popolare alle elezioni politiche del 1936 (radicali e socialisti, appoggiati dall’esterno dai comunisti) completa il quadro. Per Zappa i «figli di Voltaire», guidati da massoni ed ebrei, con il trionfo del Fronte gettano la maschera. Soffiano sul fuoco, agitando il «pericolo tedesco». Anche i comunisti, spinti dall’entusiasmo del «clima frontista», si attestano su posizioni ultranazionaliste. C’è bisogno urgente di armamenti e difese strategiche. La «linea Maginot» (fortificazione dei territori orientali), in grado di drenare ingenti risorse finanziarie, viene invocata (e costruita) come vitale cintura di protezione e garanzia difensiva da una possibile aggressione tedesca. Ovviamente, la «linea Maginot» è stata appoggiata da tutti: politici e giornali di ogni orientamento, banchieri, industriali, fabbricanti di armi. Insomma, tirando un bilancio finale, la Francia per Zappa è lo specchio della «decadenza democratica», infiacchita e sfibrata dalla corruzione e dallo strapotere della finanza. Il destino della Francia è segnato. Presto soccomberà, sovrastata da chi, come il fascismo, ha saputo imboccare un’altra strada per governare le storture e i dilemmi della modernità. Come abbiano ricordato l’ostilità nei confronti della Francia è una linea rossa presente sin dalle origini nella cultura fascista. Zappa non è uno dei tanti «giornalisti di regime» impegnati ad esercitare l‘attività entro gli stretti confini imposti dalla propaganda. Certo nelle sue considerazioni la polemica politico-ideologica è un dato di fatto. Ma la «decadenza francese» non è avvertita soltanto dal fascismo. In Francia fior di scrittori, giornalisti, intellettuali, esponenti politici di diverso orientamento, ne sono convinti. Zappa pubblica Oro, cannoni e democrazie alla metà del 1938. Più o meno un anno dopo scoppia la guerra. I francesi non sono pronti ad affrontarla. Devono farlo. Ma non ne hanno nessuna voglia. Lo scrittore spagnolo Manuel Chaves Nogales, esule in Francia, ha lasciato un’amara testimonianza del lasso di tempo – la cosiddetta drôle de guerre, otto mesi di attesa (dal settembre 1939 all’aprile 1940) – prima del conflitto, consumatosi in pochi giorni e conclusosi con la totale disfatta. Per Nogales la Francia da tempo era in piena decomposizione. La mobilitazione di 3.000.000 di uomini si rivela un’illusione, giacché erano soldati «vinti prima di iniziare a combattere». Ancora più terribile è la guerra. Brevissima ma disastrosa: 90.000 morti e 2.000.000 di prigionieri. Dopo una manciata di giorni la Francia è praticamente in ginocchio, pronta alla resa. Drammatica è l’evacuazione di Parigi, con la città in preda al panico per l’imminente arrivo dei tedeschi. La scrittrice ebrea Irène Némirovsky nel romanzo Suite francese (scritto nel 1942 ma pubblicato solo nel 2004) registra con freddezza, e una punta di disprezzo, la fuga di massa. Il grande medievista Marc Bloch, ebreo di origini alsaziane (resistente, verrà fucilato dai tedeschi il 14 giugno 1944), si interroga sulle ragioni dello schianto. Passa in rassegna tutto ciò che non ha funzionato, partendo dalle responsabilità dei vertici militari. Ma una caduta così drammatica non è riconducibile solo alle deficienze belliche. La guida politica della Terza Repubblica si era mostrata carica di vizi e avara di virtù. La fetta di responsabilità andava ripatita tra la borghesia, il pacifismo internazionalista, gli intellettuali democratici. Responsabili sono anche le élites che «erano invecchiate nella finta sicurezza di Versailles, nelle utopie del separatismo renano, nella presunzione dei “piccoli funzionari”, del nazionalismo bottegaio e campanilistico». Per Bloch la débâcle del 1940 faceva saltare agli occhi, inequivocabilmente, la debolezza endemica della Francia rispetto alla Germania. Giudizio anticipato, attraverso altre argomentazioni, già nel 1938 da Paolo Zappa.
Nel 1935-’36 in realtà i rapporti tra G.B. ed Italia non erano cattivi. Parole a parte. Infatti la G.B. lasciò passare le nostre navi per Suez verso Massaua (per la guerra d’Abissinia) ‘in cambio’ del sostegno italiano ai nazionalisti spagnoli. In prospettiva, e dopo, la vittoria del Fronte Popolare in Francia, Londra non voleva una sua ripetizione in Spagna. Londra non era fascista o filofascista, solo badava ai suoi interessi. Cioè un governo militar-conservatore a Madrid (che non rompesse le scatole per Gibilterra), non uno social-comunista.