
“Non parlare con gli sconosciuti!”, ci dicevano le nostre mamme e le nostre nonne quando ci portavano a giocare al parco, da bambini. Vivendo in un luogo appartato e relativamente al riparo da rapimenti e criminalità, non avevo mai ben capito perché, all’epoca. È così bello parlare con gli sconosciuti, a volte assai più istruttivo che scambiare i soliti triti convenevoli con le solite persone. E però, leggendo l’ultima fatica di Agenzia Alcatraz, “Le confessioni di un peccatore eletto”, ho finalmente capito il perché di quell’ammonimento.
Già, perché nello sperimentale romanzo di James Hogg c’è l’archetipo, il mammasantissima degli incontri con Satana, incontri che avvengono rigorosamente all’aperto, in un luogo isolato ma quotidiano, per cullare gli ignari protagonisti in una falsa rilassatezza. Il topos in questione poi ricorrerà in un certo tipo di narrativa a cavallo tra il weird e il sociologico, spesso interessata alla “questione femminile”, da Ethel Mannin (il suo “Lucifero e la bambina” è un’altra delle meritorie riscoperte di Alcatraz) a Sylvia Townsend Warner, il cui finale di “Lolly Willowes” è, forse, il più letterariamente elaborato di tutti.
Gil-Martin, il misterioso coprotagonista delle “Confessioni” – il cui nome, forse perfino casualmente, vista l’origine popolare e il background da autodidatta di Hogg, pastore scozzese del primo ‘800, ricorda vagamente quello di Gilles de Rais, sulfureo nobile citato da tanti grandi della letteratura, da Huysmans in “Là-bas” a Jean Ray -, è il doppelgänger che ruba quasi la scena al protagonista, Robert Wringhim, devotissimo rappresentante del movimento dei covenanti e, forse, figlio illegittimo di un pastore – qui nel senso di pastore di anime, e non di pastore di pecore.
Per tutta la durata del romanzo, che fornisce uno spaccato acutamente satirico della società scozzese e del fanatismo religioso che la pervadeva ed è diviso in una prima ricostruzione dei fatti ad opera del narratore, in un manoscritto autografo del peccatore e poi in una chiusa-cornice decisamente ottocentesca/manzoniana (benché la trovata di porla alla fine renda meno didascalico, agli occhi del lettore contemporaneo, un espediente che inevitabilmente sa di “già visto”), si rimane in bilico tra due ipotesi, entrambe dotate di prove a loro sostegno: Gil-Martin è il Demonio incarnato, o è una proiezione mentale della pazzia del protagonista? E se ne “Il signore dei lupi” di Dumas il Diavolo serve solo, nell’ottica della “morale della favola”, ad evidenziare un po’ schematicamente l’ambizione divorante di Thibault, per poi punirlo con le sue stesse armi, nelle “Confessioni” la personalità di Robert è analizzata con termini semplici (si pensi a quando Hogg scrive, nei panni del peccatore “Pensare continuamente a una cosa ne modifica ogni aspetto”, considerazione che può apparire quasi banale, di primo acchito, ma che ogni rimuginatore seriale può confermare nella sua verità) ma, al contempo, con una profondità tale da sembrare, a tratti, una proto-diagnosi di schizofrenia o di disturbo dissociativo dell’identità, come quello di Dr. Jekyll e Mr. Hyde e, in seguito, dei protagonisti dei film “Schegge di paura” e “Split”.
L’unica cosa che tradisce appena l’orizzonte limitato di Hogg, è, paradossalmente, la sua satira rivolta esclusivamente al popolo scozzese – l’unico che conoscesse, d’altra parte. Scrive: “è risaputo come al giorno d’oggi i cittadini della Scozia giudichino diversamente i casi a seconda che riguardino uomini del proprio partito o di principi politici opposti”, laddove Alessandro Manzoni, sicuramente più uomo di mondo, scriveva, nei suoi “Promessi Sposi”: “Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo”.
“Le confessioni di un peccatore eletto”, di James Hogg, Agenzia Alcatraz, acquistabile qui