
Marine Le Pen è stata dichiarata ineleggibile fino al 2027. Non da un parlamento, né da un’assemblea, né tantomeno da una piazza, ma da un giudice. A Parigi. Fine della corsa, senza gara. Una sentenza ha zittito l’urna. È da qui che occorre partire, non per difendere la persona – che si può amare o odiare – ma per comprendere un principio inquietante: in Europa è ormai normale che la volontà popolare venga sterilizzata con certa eleganza, in nome della legge, da chi non ha ricevuto né voti né deleghe.
Distributore automatico di diritti
Troppo spesso si incorre in un gigantesco errore concettuale: si equipara la democrazia a un distributore automatico di diritti. Si crede che essa sia “vera” solo se produca “diritti giusti”, “scelte giuste”, “moralità giusta”.
La democrazia, invece, non è questo. È metodo, non contenuto. È il come, non il cosa. È la forma attraverso cui una comunità sceglie collettivamente, talvolta anche sbagliando. Ed è proprio nella possibilità di errore che la democrazia manifesta il suo significato autentico: perché decide liberamente. Tuttavia, proprio questa libertà oggi è sotto assedio. Lo Stato di diritto, nato con le migliori intenzioni, è diventato invece un sistema di prevenzione delle scelte del popolo. Un alibi perfetto.
Stato di diritto: da garanzia a gabbia
A differenza della democrazia dell’Atene di Pericle, lo Stato di diritto nasce nella Germania del XIX secolo come Rechtsstaat con una missione precisa: impedire che il potere politico travolgesse i diritti fondamentali. Era un recinto, un limite. Dopo i traumi del Novecento, le dittature e le guerre, quel recinto è divenuto santuario e il giudice si è elevato a sacerdote messianico. Mentre il popolo parla, le corti dunque correggono.
Non solo Francia e Romania. L’Europa intera è sotto tutela. Perché esiste una burocrazia giuridica, che si proclama neutrale e in realtà plasma la società. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Corte europea dei diritti dell’uomo, tribunali costituzionali: tutti pronunciano sentenze in nome della legge, ma la legge non parla più in nome del popolo,
Il giudice come legislatore
«I giudici sono solo la bocca della legge: non possono moderarne né la forza, né il rigore», scriveva Montesquieu, definendoli “esseri inanimati”. Oggi, invece, sono animati eccome: si sono fatti bocca, mente e mani. Legiferano silenziosamente, senza voti, senza mandato, senza popolo. Quando la democrazia disturba, la neutralizzano a colpi di sentenze.
Popolo, magma di tensioni
Non inganniamoci, il popolo non è limpido né monolitico. È magma, tensione, urgenza, memoria e contraddizione. Non parla con una sola voce né detta verità univoche. È vivo, dunque inquieto. Lo Stato non è migliore: è solo un contenitore, un modo con cui la comunità agisce, non ciò che essa pensa. Chi può quindi scegliere, chi decidere?
Il politico, unico arbitro del conflitto
Solo il politico può ergersi ad arbitro tra il popolo e la norma. Non il burocrate, non il tecnico, ma il politico autentico: colui che interpreta il suo tempo, assume responsabilità e decide anche quando tutto lo sconsiglia. La democrazia non è una garanzia, ma una possibilità. Deve poter sbagliare per potersi rialzare. Eppure oggi le si nega questa libertà. Il popolo, impastato di contraddizioni, non può offrire una visione unica; lo Stato, mero contenitore, non può incarnare una verità superiore. Rimane il politico: figura tragica, solitaria, necessaria.
Dissenso = reato
Tuttavia, nel Vecchio Continente, la politica è ridotta a mera amministrazione. La legge è diventata precetto, il dissenso reato. Non si governa, si bilancia. Non si decide, si legittima. Non si rappresenta, si interpreta. I giudici sono i nuovi oligarchi, viviamo in quella che potremmo definire “giuridocrazia”.