
Fra il 1876 e il 1915 più di quattordici milioni di italiani emigrano. Di questi 7,6 milioni circa vanno in Usa, il resto in vari paesi d’Europa e una minoranza in altri continenti. Il Mito della “Merica” promette una vita migliore se non più ricca e fortunata.
La prima rilevazione ufficiale dell’emigrazione fu effettuata nel 1876 e emerge che da quella data fino al 1988 gli italiani trasferiti all’estero sono circa 27 milioni. In media meno della metà torna in Italia per varie ragioni: non si sente integrata, preferisce comunque vivere in Italia, è la decisione presa dopo il fallimento dell’esperienza lavorativa all’estero.
Per fare il punto sull’emigrazione, soprattutto verso gli Stati Uniti d’America, due studiosi, Mario Avagliano e Marco Palmieri, hanno messo a punto una ricerca durata anni che offre un’analisi del fenomeno migratorio verso gli Usa e del sogno dell’american way of life.
Le quattro fasi della diaspora
Questa diaspora può essere scomposta in quattro fasi: la prima, dal 1876 al 1900. La seconda, dall’inizio del Novecento alla fine della prima guerra mondiale; la terza, nel periodo fra le due guerre; la quarta, dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. La prima fase, sotto il governo della Sinistra storica, guidata da Agostino Depretis, creò i maggiori problemi per gli italiani senza riuscire a varare una politica che risolvesse la crisi. Infatti, dapprima sono 5 milioni e 300mila gli espatri, in seguito aumentano, per lo più si tratta di uomini giovani (81 per cento) e giovanissimi (il 16 per cento) che hanno meno di 14 anni. La maggioranza è composta da contadini, ma non mancano operai, meccanici e anche una piccola quota di professionisti (un inizio di “piccola fuga” dei cervelli). I meridionali preferiscono raggiungere gli Stati Uniti e Canada mentre i settentrionali si dirigono verso mete europee. Insomma, dall’inizio del Novecento alla prima guerra mondiale si registra un vero e proprio esodo: secondo le statistiche ufficiali, sono circa 600mila gli italiani che ogni anno, di quel periodo, abbandonano l’Italia, per un totale di nove milioni di persone. Per molti l’emigrazione è l’occasione per lavorare duro, accumulare capitali per tornare in Italia, nella propria città, per comprare una casa o avviare una piccola attività commerciale o acquistare un appezzamento di terreno da lavorare. Questo movimento di masse di uomini viene definito “Grande emigrazione del Novecento”. In genere le cause sono quattro: le differenze salariali; la spinta demografica; la catena migratoria e la politica migratoria. In più coloro che esprimono il dissenso politico verso il governo, la convinzione di non avere un posto nella società e quindi preferire andare in Belgio, Svizzera, Germania o Francia. Lo Stato unitario cerca di frenare questa emorragia ma per il fallimento della politica coloniale e la crisi agraria, addirittura finiscono per favorire i flussi migratori. Lo scoppio della prima guerra mondiale di fatto blocca le partenze che riprendono, anche se più lentamente, alla fine della Grande guerra sia per le leggi varate negli Usa con lo scopo di scoraggiare e contenere le migrazioni. Perciò vengono varati i Quota act del 1921 e 1924 ma la crisi economica del 1929 fa sembrare poco appetibile l’America, sia pure per poco tempo.
Le difficoltà dell’emigrazione
Per lo più i migranti negli Usa sono uomini soli, dai 14 ai 45 anni. A volte partono in gruppi con compaesani o parenti. Avagliano e Palmieri affrontano il tema della migrazione degli italiani verso gli Usa dal punto di vista economico e demografico, ma anche dal punto di vista sociale. Consultando grandi quantità di documenti, diari, lettere, pubblicazioni, inchieste coeve al periodo delle migrazioni, illustrano le vicende cui questo popolo sterminato vive. Dai momenti della partenza, momenti di strazio poiché il migrante capisce che non vedrà più la propria città e i propri parenti, al rapporto con i mediatori, spesso imbroglioni che sfruttano la buona fede dei migranti. Ancora: le difficoltà di un viaggio che dura più di un mese, con dormitori sporchi e maleodoranti. Eppoi i documenti di imbarco, le navi non sempre efficienti, spesso in balia delle tempeste. Una volta arrivati a Ellis Esland, a New York, comincia la trafila di visite, controlli, respingimenti dei non idonei che vivono così momenti di disperazione.
Il dilemma del capitale umano
Ottenuto il permesso, bisogna cercare un lavoro, spesso poco qualificato e ingoiare l’umiliazione di salari più bassi di quelli che ricevono altri popoli. Ci sono anche coloro che fanno fortuna quasi subito, a esempio aprendo ristoranti e osterie, in città e paesi dove la cucina italiana è ben apprezzata. Nella ricerca di Avagliano e Palmieri non mancano l’aspetto psicologico come la scoperta del Nuovo Mondo, la nascita delle Little Italies, le reti sociali che si costituiscono da sé, composte da compaesani, familiari, ma anche le difficoltà dell’integrazione e talvolta il razzismo. Le contingenze politiche si ripercuotono sulla vivibilità: la grande guerra e il dilemma delle due patrie, gli italoamericani e il fascismo, l’emigrazione politica e razziale, la Mano nera e Cosa Nostra ma anche il conflitto generazionale fra italiani trapiantati in Usa e la seconda generazione di italoamericani, le storie di successi degli italoamericani e di insuccessi. Uno studio che dovrebbe servire a comprendere certe dinamiche e offrire elementi per meglio considerare le varie forme di emigrazione che tuttora esistono. Infatti, secondo i dati Istat, nel periodo 2022-2023 sarebbero circa 200mila i giovani che hanno scelto di emigrare per trovare un lavoro. Questi, la maggioranza è composta da laureati, rappresentano la fuga dei cervelli. Una perdita di capitale umano stavolta di alto livello.
Mario Avagliano e Marco Palmieri, Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti il Mulino ed., pagg. 549; euro 32