
“La Federazione del Pci di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre (1949) l’espulsione dal Partito del dottor Piero Paolo Pasolini di Casarza per indegnità morale.” Con la notizia viene colta l’occasione per rinnovare la denuncia contro le deleterie influenze dei vari Gide, Sartre e altri decadenti poeti e letterati “che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della generazione borghese.” Tutto questo su l’Unità, organo ufficiale del partito comunista, diretto da Pietro Ingrao e Davide Lajolo. Sono quelli che affermano di detenere l’egemonia culturale del nostro Paese. E tramanderanno tale vanto nei secoli ai loro eredi.
Una febbre di vivere pervade Pasolini, lo brucia dentro, lo sfibra. Non gli dà scampo. Una disperazione, sua compagna, per lui gioia di vita. E lo renderà strenuo alfiere della sua diversità. C’è del veleno nel suo estetismo barbaro che sparge nelle borgate romane, il passato friulano è alle spalle. Adesso si percepisce il suo piacere ambiguo nell’affrescare il sottoproletariato che lo rende lenone. Casarza resterà per sempre il suo Eden da rimpiangere, da cantare. Ma c’era o non c’era più, ed è soltanto il cordoglio della giovinezza smarrita. Verseggia di dopostoria eppure usa il mito, invano, su quei contadini che hanno scoperto i trattori e i fertilizzanti. Le slides sono liquefatte dal “sono ancora caldo,” preservate nel caleidoscopio, nell’immaginario dell’esilio. La religione dell’età passata, dell’innocenza perduta. Ci sono il fanciullo e il grembo.
Ferretti: “La lacerazione dell’intellettuale borghese tra odio e amore per il suo vecchio mondo. Pasolini tenta uno svisceramento furioso, impietoso di questo suo essere diverso, della sua interiore realtà di reietto ma…” Ma…
Il discorso d’amore scorre solo, avviene, in quel tubo che è il cordone ombelicale mai reciso con la madre, Susanna. Una privativa che non ammette, concede intromissioni con il ricatto delle doglie. Del dono di quel essere tragico. Lui è esplicito: “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore.” Sarà la Madonna nel suo Vangelo secondo Matteo. Ma questo lo prosciuga ad amare altri. Il suo disamore. I suoi amplessi hanno le proiezioni ginniche dei vasi greci. Il pedissequo elogio dei morti tace il vero.
Il finimondo del ’68! Pasolini lo vede come un prodotto incartato, da vetrina. Una merce, un feticcio. Ci trova un bisticcio tra borghesi, una cosa loro, un divertissement della borghesia. I giovani in rivolta non li riconosce come figli suoi. Ecco: “Avete facce di figli di papà/ Buona razza non mente/ Avete lo stesso occhio cattivo/ … quando avete fatto a botte coi poliziotti,/ io simpatizzavo coi poliziotti!/ Perché i poliziotti sono figli di poveri.” (16/06/1968)
Il 19/01/1975 su “Il Corriere della sera” ha un palpito per la germogliazione: “Sono contrario alla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia.”
La persecuzione e l’esecuzione, Gianni Scalia dialoga con lui già giustiziato a Ostia. Cerca nella mania della verità e teorizza che Pasolini non è scandalo, è scandalizzato. Lo scandalo è il rapporto tra oppressi e oppressori, tra dominati e dominanti. Scandalo per i greci è ostacolo, inciampo. Marx ha detto che serve a riconoscere la merda delle contraddizioni. Pasolini si fa corsaro violento e Scalia lo apprezza. L’accusa al Palazzo metafora del potere, è lui che processa, lui che ha subito un’infinità di processi. Il genocidio, la mutazione antropologica che nega il mutamento. La sua requisitoria su Il corriere della sera, il giornale dei padroni, puzza di Inquisizione.
È stato un cattivo maestro o ha avuto cattivi allievi? Cosa pensiamo noi? Lui ha esagerato per quel piacere di provocazione che sprigionava dalla sua mente, dal suo corpo, e gli alunni lo hanno frainteso facendo del suo sangue una comunione con tanti altri, egualmente assassinati. Ostia, il suo spurgo, del lungo martirio inutile. Lui era altrove, passeggiava nelle valli sacre della libidine, sadica, masochista. I suoi roghi erano di passione erotica.
Sventolano le bandiere rosse, le belle bandiere degli Anni Quaranta, questo nella poesia. Ma… nel Giugno del 1973 sul “Tempo” sbotta: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata.” Ecco il Pasolini reazionario che sconcerta, la sua fede marxista è indubbia. Dobbiamo dedurre che la melanconia è reazionaria? Un pericolo per la democrazia?
Scalia lo definisce maledetto, non nel senso offensivo ma per una giusta collocazione: non giacobino, non reazionario. Il giacobino è legato a potere e partecipazione, il marxista a oppressione e emancipazione. La libertà è potere, o consenso al potere? Oppure è contro il potere e dissenso? E allora? Rubiamo un concetto citato sempre da Scalia sul totale. Adorno afferma che l’intero è falso perché l’intero è vero, per Bloch ciò che è può essere falso. In questo paradosso di sintesi possiamo scovare Pasolini, la sua ambizione? L’ospite tuttofare di Teorema?
Ferretti circuisce Pasolini, lo battezza: un intellettuale borghese romantico decadente. Altri: Pasolini nipote bizzoso di D’Annunzio. Perché questo presunto incesto? No, raccolgono narcisi ognuno per suo conto, si ammirano in specchi difformi. Etichettare gli scrittori è una sorta di razzismo culturale, basta.
Pasolini è un Messia della crudeltà, la offre e la pretende. Sgorga dai fotogrammi, dalle pagine. Anche quella che si riverserà su di lui, in questo è geniale. E con lui per lui la crudeltà non è nella norma ma atroce. Sfregia il pathos. Sarà vittima degli assenti della storia che ha partorito, incensato.
Siamo all’Universo Orrendo, il mondo capitalista che abitiamo. E con “ognuno di noi è Capitale” colpevolizza, rende tutti complici. La sua abiura è vana, la società del Dio Denaro compra, corrompe tutti. E ghermisce anche lui, dandogli il successo dei romanzi, dei films. Lui contro il Mostro Sviluppo che beffardo lo abbraccia, lo avvolge. Mentre lamenta la migrazione dai valori della religione ai valori dei consumi il Golem lo trasforma in merce.
Pasolini si richiama a un comunismo della povertà. Nomina i poveri in senso evangelico, rigettando i lacci delle congreghe, delle cellule, ma non è tempo di carità. Tutti omologati. Tutti acquiescenti al Capitale-Palazzo-Potere, che unisce popolo e borghesia. Un bene un male? Finalmente, diremo noi. Per lui un’apocalisse: la dissoluzione della classe, la decomposizione che si accompagna all’indifferenza. Opposto all’opposizione si ritrova unico. L’unico vivo in una città di morti, nell’agorà. Si fa erratico, sacerdote del paradosso. Calca il suo esilio, forse allude l’espulsione dal Partito. Veramente è lui ad aver espulso i compagni. È iconico, cerca il codazzo ma lo infastidisce. Ha un mal di vivere che travalica le problematiche sociali. Un urlo nelle interiora, lancinante, che nessuno nel dedalo riesce a strozzare, a placare. Chiede chiede, elemosina un appagamento, invano! Neppure con una mercede, un pattuito casting.
La sua poesia “Saluto e augurio”.,la poesia del commiato. Nei versi mette il vigore dei Cantos di Pound, che ha sdoganato, quasi a chiederne l’imprimatur, e si rivolge a un giovane fascista. Evita i ragazzi di sinistra perché intenti a rincorrere la Nuova Preistoria, i valori della nuova società. All’acerbo antagonista chiede di difendere i campi. “Difendi i campi tra il paese / e la campagna, con le loro pannocchie / abbandonate./ I casali assomigliano a Chiese./ Difendi, conserva, prega: ma ama i poveri.” Lo esorta a credere “nel borghese cieco di onestà”, perché anche lui è un uomo. Infine gli affida il suo fardello, il sapere. Pubblicata nel maggio 1975, l’anno della sua morte, può essere considerato un testamento. Un testamento incoerente, una contraddizione ma non lo è. Il suo richiamo alle tradizioni è sincero, nel cuore ha l’immensità contadina. “Io sono una forza del Passato/ Solo nella tradizione è il mio amore.” Lamenta la scomparsa delle lucciole e: “Io darei l’intera Montedison per una lucciola.” (Il Corriere della sera, 1/2/1975.) Sembra sentire il suo prossimo congedo e si concede di essere ecumenico. Nella copertina del libro di poesie appone la sua fototessera di militare.
Pier Paolo Pasolini. Un parente del quale siamo orgogliosi ma lo consideriamo importuno, ingombrante, e se va via tiriamo un respiro di sollievo. Ci guarda nelle tasche e ci rimbrotta. Moravia nell’orazione funebre lo dice “fuggito”. Non spiega da chi, sicuramente da noi. Involontariamente celebra la discrazia esistente. Insomma, Pasolini lascia “un vuoto pieno di buchi”.