
Da che mondo è mondo, o meglio da quando esiste quella strana parte di mondo che è il Parlamento Europeo, molti deputati indulgono alla tentazione di utilizzare i rimborsi spese che sarebbero destinati alla retribuzione dei collaboratori a Strasburgo per pagare funzionari di partito operativi nei loro collegi. I motivi sono due: la democrazia, piaccia o meno, ha i suoi costi e, visti gli scarsi poteri dei parlamentari europei, schiacciati dall’onnipotenza della Commissione, è forte in loro la tentazione di risparmiare sui rimborsi spese destinati ai passacarte dell’emiciclo di Strasburgo per rafforzare la presenza sul territorio. Se questo comportamento sia giuridicamente corretto e moralmente lecito si potrebbe discutere all’infinito. Personalmente, credo che se un politico di professione utilizza i rimborsi spese che riceve per finanziare la sua attività politica retribuendo regolarmente i collaboratori non è un ladro né un malversatore; lo è se lo fa per mantenere l’amante, se paga al nero i portaborse o peggio se con i contributi si arricchisce di persona.
Oltre tutto, le circoscrizioni in cui sono eletti gli eurodeputati sono vastissime e anche questo rende necessaria la presenza di uomini fidati in loco, per mantenere i contatti con gli elettori, per valutare le esigenze del territorio, organizzare convegni e attività culturali. A questo occorre aggiungere, in tempi di riunioni on line e di smart working, che non si capisce perché un funzionario parlamentare debba per forza timbrare il cartellino a Strasburgo e non possa lavorare a Parigi o a Lione.
Per questi motivi non posso fare a meno di esprimere molte riserve sulla condanna con cui il Tribunale di Parigi ha decretato la morte politica di Marine Le Pen, dichiarandola ineleggibile alle prossime elezioni presidenziali, in cui era largamente favorita. Non sono per altro isolato: sono già in molti a chiedersi se la Francia di oggi (per altro largamente islamizzata) sia quanto a tutele dell’indipendenza dei politici molto diversa dalla Turchia di Erdogan.
Qualcuno potrebbe obiettare che da tempo la Giustizia francese non fa sconti ai politici, in una sorta di tangentopoli transalpina; peccato però che, come del resto in Italia, la Magistratura colpisca soprattutto uomini della destra, da François Fillon, fatto fuori anche lui dalle Presidenziali con il cosiddetto Penelopegate, allo stesso Sarkozy. Ma se anche colpisse politici di sinistra, il suo intervento sarebbe discutibile.
Resta comunque un fatto: senza bisogno di andare ad Ankara, la Francia è la seconda nazione europea in cui i risultati di un’elezione rischiano di essere falsati dal potere giudiziario. La prima è stata la Romania. Com’è noto, a Bucarest la Corte Costituzionale aveva invalidato i risultati del primo turno delle Presidenziali, accusando il candidato che aveva ottenuto la maggioranza relativa di avere avuto troppi follower su tik tok e di avere utilizzato fondi occulti, sulla base di informative dei servizi, probabilmente provenienti dalla Russia. E in seguito la Commissione Elettorale lo ha escluso da una nuova candidatura. Ogni commento è superfluo; mi limito a osservare che se criteri analoghi si fossero dovuti adottare in Italia dal dopoguerra agli anni Ottanta il Partito Comunista, locupletato con l’oro di Mosca, avrebbe dovuto essere escluso da qualsiasi competizione elettorale: anche da anche da quelle per i consigli di quartiere.