
Alter Spirito è autore noto per avere dato alle stampe, negli ultimi vent’anni, diverse sillogi poetiche. Badi il lettore, la sua formazione e la stessa ispirazione di fondo che muove i suoi scritti sono di natura filosofica. Lo si evince, in tutta evidenza, dalla sua ultima fatica, Eredità eretiche. Saggio erratico sulle offese del contemporaneo, nelle librerie per i tipi di Ortica Editrice (pp. 119, euro 11,00). Un testo che si presenta, a una prima lettura, quale raccolta di pensieri sparsi. In realtà, il lettore attento comprende facilmente che, in esso, Spirito enuncia la propria visione del mondo, ruotante attorno a due cardini. Il primo è ben esemplificato dal sottotitolo polemico che rinvia a un antimodernismo, non semplicemente concettuale o teorico, ma esperito e patito in termini esistenziali, nella nuda carne, dallo scrittore. Spirito, attraverso l’espressione scrittoria, mette in atto una disperato, ma potente j’accuse, nei confronti della mestizia spirituale del tempo presente, della post-modernità liquida. Il secondo cardine ideale, quint’essenza della visione dell’autore, è il tragico, grecamente inteso.
Ricorriamo, al fine di cogliere quello che ci pare, se abbiamo ben inteso, il cuore vitale del libro, all’espressione coniata da Roberto Esposito a proposito di uno dei caratteri dell’ Italian Thought, “filosofia della resistenza”. Spirito è, per noi, rappresentante di rilievo di tale “filosofia della resistenza”. Resiste al pensiero dominate e agli idola, oggi virtualmente pervasivi che hanno colonizzato l’immaginario individuale e comunitario. Per questo, come recita il titolo, si pone in sequela di Eredità eretiche, le cui molteplici voci (non solo italiane) animano empaticamente il suo dire: «Ho vissuto e vivo di eredità eretiche. La devianza esistenziale mi appartiene sempre di più» (p. 5). Lo scrittore-filosofo muove dalla constatazione che la tarda modernità, si mostra, innanzitutto, nella fuga dalla Parola, dal Dire originario, indotta dall’oblio dell’Altrove. La “morte di Dio” pare aver insterilito la spinta esistenziale e teoretica a una possibile Persuasione, per questo il dire tragico divine, nel tempo della post-verità, per chi pensi, come rilevato da Alain Badiou “dalla fine”, esercizio di parresia. Il lettore non è blandito da alcun atteggiamento consolatorio, ma posto, ad occhi aperti e sbarrati, di fronte alla nuda vita, all’ineluttabilità della morte. La morte, la grande esclusa dal banchetto caleidoscopico e abbagliante della modernità volta all’utile, come si evince dal ricordo del dolore indotto nell’autore dalla perdita della madre, cela in sé la possibilità dell’autentico: «Ogni vera autenticità ha sempre il sapore di un fallimento» (p. 8).
Queste pagine sono scritte da un solitario, da un uomo che si è auto-escluso dal perverso gioco di società che tutto lega e sono attraversate dall’idea umanistica di Malinconia, con tutti suoi correlati, in particolare la fantasia e l’immaginazione. Esse spingono a contemplare il silenzio del non-detto, custode dell’origine. Tale ascolto, a cui l’udito di Spirito è avvezzo, propizia l’otium, il non-agire: «Limitarsi a contemplare l’essente, anziché, come accade da più di tre secoli, a manipolarlo sottoponendolo alle leggi brutali dello sfruttamento utilitaristico» (p. 11). Per tale esercizio è necessario riscoprire il “foro interiore”, luogo di tutela del “cuore avventuroso” jüngeriano. Portare l’attenzione in interiore homine consente il passaggio al “regno dell’inazione” di cui ha detto Musil, baluardo di libertà e di misura nell’età della dismisura imposta dal capitalismo computazionale. Una tesi impolitica, in senso manniano, ma proprio per questo, connotata in termini civili, essendo volta a beneficio del singolo e della polis. Il non-agire fa cadere le barriere dicotomiche e dualiste imposte dal logo-centrismo. Spirito, avendo contezza del proprio cammino esistenziale sostiene: «l’ho solo sfiorata la vita» (p. 14), egli ha vissuto la tentazione di esistere di Cioran. La scrittura che corrisponde a tale visione delle cose non può che essere: «lacerata, eretica ed urticante, frantumata e discontinua» (p.16). Si tratta della “comunicazione d’esistenza” praticata da Kierkegaard nei Diari, mirata a “prender per il collo” il lettore, a svegliarlo dalla letargia epistemica nella quale vive. Un dire del disinganno che s-determina, come accade nell’arte autentica, mirato a s-mascherare l’io, al fine di far sorgere in noi, limpido e cristallino, il principio che ci anima.
È il serrato e coraggioso confronto con la lacerazione della vita, con il dolore, a liberarci. Lo seppe Andrea Emo, ricordato dall’autore: per il filosofo veneto il principio è un non orginario che, momentaneamente, si positivizza negli atti aristotelici, negli enti di natura e che tutto pervade. Per chi scrive, quindi, l’origine non vive in un Altrove, ma è sempre e solo, qui. Lo intese Giordano Bruno che finì, per questo, sul rogo: vive in noi e nella physis. il problema sul quale Spirito porta l’attenzione è di: «tentare di dire quel (questo) nulla» (p. 109). Solo tale experimentum linguae, stante la lezione di Derrida, può consentire di comprendere che l’aporia non sta nella morte, l’aporia è nella vita, nella sua caotica manifestazione, nel suo darsi. Tale aporia non atterrisce, lo seppe Leopardi, ma euforizza, consente, etimologicamente, di sopportare serenamente la lacerazione, l’assurdo di cui disse Rensi, della nostra ex-sistenza, del nostro esser-gettati nel mondo.
Pur non conoscendo l’autore, ci sia consentito sostenere che nel suo libro abbiamo riconosciuto la testimonianza, partecipata anche emotivamente, di un “fratello”, di un comes in spirito. Non è poca cosa, nell’in-solitudine nella quale viviamo. Eredità eretiche ci ha permesso di compiere, nell’erranza del vero, come ebbe a scrivere il filosofo politico Gian Franco Lami: «Un passo per la vita, un passo per il pensiero».