
Da circa 250 anni, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) è un’icona dei ‘progressisti’, per aver scritto cose intelligenti, ma contraddittorie, venate da sdegnosa astrattezza teorica. Forse per peggiorare inconsciamente il destino umano, considerando gli abbandoni subiti nella sua triste infanzia. En passant, il dittatore cubano Fidel Castro si disse un assiduo suo lettore! Considerato un illuminista autodidatta, ma in radicale controtendenza rispetto alla corrente di pensiero dominante nel suo secolo (definibile un preromantico o un illuminista anti-razionale) – le sue relazioni con gli intellettuali delle lumières Denis Diderot e Voltaire sono segnate da aspri conflitti per il suo egocentrismo – Jean-Jacques Rousseau contribuì assai all’ideologia anti-assolutistica, un parte comunisteggiante, che fu alla base della Rivoluzione del 1789; anticipò degli elementi che avrebbero caratterizzato il Romanticismo e segnò in profondità la riflessione politica, sociologica, morale, psicologica e pedagogica successiva. I punti chiave del suo pensiero sono il contratto sociale, l’uguaglianza legale e sociale di tutti i cittadini, il naturalismo, la religione civile, lo stato di natura – il concetto semplificato nel ‘buon selvaggio’ – la volontà generale, la sovranità popolare, il primitivismo, il ruralismo, la virtù e la democrazia diretta. Punti della sua visione etica saranno ripresi da Kant e dai teorici del socialismo.
Il Contratto Sociale o Saggio sulla forma della Repubblica, è un trattato filosofico-politico di Rousseau pubblicato nel 1762, ‘dopo vent’anni di meditazione e tre di lavoro’, che ebbe vasta eco nell’ambiente letterario francese ed europeo. L’obiettivo di Rousseau è quello di disegnare un modello di società che, nell’impossibilità di ritornare allo status di natura primigenio, constatata la crisi nella quale versa l’uomo moderno, garantisca la costituzione di uno Stato democratico ed assicuri la tutela della libertà individuale di ciascuno. Il discorso di Rousseau si sviluppa intorno a due poli collegati: l’individualismo dei cittadini, da cui deriva l’origine del potere politico, ed il contrattualismo, ovvero l’idea che alla base dell’associazionismo politico vi sia un accordo razionale e convenzionale, che permette di superare la semplice legge del più forte.
La prospettiva di Rousseau nel Contratto si pone alternativa al giusnaturalismo di Grozio, alla teorizzazione del potere assoluto di Thomas Hobbes nel Leviatano, al Pactum subiectionis di John Locke. Fondandosi il ‘contratto sociale’ su un problema morale, la dipendenza reciproca dei cittadini non è una costrizione, ma una condizione di indipendenza di ciascuno rispetto agli altri, entro la quale realizzare i propri fini: una dipendenza sociale giusta, imparziale. Rousseau, nella sua costruzione di una società ideale, fondata su un patto politico tra gli individui, riconduce ogni diritto politico ad un solo principio: quello della ‘volontà generale’. Che è per l’autore la volontà dei cittadini costituitisi come corpo comune, all’interno del contratto di associazione, una forma di decisione collettiva legislativa con il fine ultimo e supremo del bene pubblico. Il governo nella costruzione contrattuale di Rousseau è solo un corpo intermedio tra suddito e sovrano con poteri esecutivi: la forma di governo migliore è quella della aristocrazia elettiva, in cui pochi governanti sono eletti dal resto dei cittadini; in tal modo i più saggi governano la moltitudine, quando si sia sicuri che la governeranno per il suo e non per il loro profitto: ”Non bisogna moltiplicare le sfere di competenza, né fare con ventimila uomini ciò che cento uomini possono fare anche meglio’.
In quello stesso 1762, un anno fondamentale per la fama del ginevrino, Rousseau pubblica altresì la pièce teatrale Il Pigmalione, un’opera drammatico-musicale con intermezzi musicali, uno dei primi esemplari di melologo (mélodrame). E, soprattutto, a Ginevra, l’Émile ou de l’éducation, un trattato filosofico sulla natura dell’uomo, una critica aspra della pedagogia tradizionale e delle religioni rivelate. Egli impresse alla pedagogia quel giro copernicano, che sarà sviluppato da Johann H. Pestalozzi, educatore zurighese di origine italiana, il ‘Padre della Pedagogia’. Per Rousseau-Mentore l’educazione tradizionale opprime e distrugge l’orientamento naturale dell’essere umano. Gli uomini nascono ‘liberi e buoni’, ma l’educazione annulla progressivamente bontà e libertà. L’ideale è una pedagogia che conduca allo sviluppo naturale del bambino, privilegiando il gioco, l’osservazione della natura, le materie pratiche al posto di quelle teoriche, della memorizzazione artificiale e ripetitiva. Il bambino, seppur guidato, deve imparare da solo a pensare ed interagire con le cose e la natura. L’educazione (nell’Emilio pensata fino ai 25 anni, cosa da… accademia platonica!) deve avere per obiettivo la formazione di un uomo libero, con forti intuizioni e sentimenti. Disprezzando la teologia, l’autore propone una religione naturale, ‘buonista’ ça va sans dire… Naturalmente, il libro è condannato e bruciato sollecitamente e pubblicamente da autorità civili ed ecclesiastiche.
Rousseau – che però, ammise nelle Confessioni, abbandonò neonati a Les Enfants-Trouvés ben 5 figli, nati tra il 1746 ed il ’52 perchè ‘sarebbero stati meglio lì!’; probabilmente era impotente ed i figli solo della compagna e poi moglie, Thérèse Levasseur, una lavandaia di Orléans, in una cerimonia d’incerta validità, da lui impietosamente descritta – propone con l’Emilio una fusione di narrazione e riflessione filosofica e pedagogica fondata sul principio che ‘l’uomo è naturalmente buono’. Con ‘stato di natura’ egli intende uno stato ancestrale dell’umanità, che forse mai è esistito e che non è più recuperabile da parte dell’uomo moderno, allorché l’uomo, prima della civilizzazione, viveva come un animale tra altri animali, ora corrotto dalla società, spesso in catene. Nel Contratto Sociale egli sostiene il rinnovarmento della società da un punto di vista politico; con L’Emilio sottolinea che nulla si può fare se non si parte dall’educazione e dalla vera cultura, che servono a creare uomini nuovi per una società nuova (concetto poi ripreso da Lenin e Gramsci). L’egualitarismo non è alleato o strumento della mobilità sociale neppure per Rousseau, che pure non è pessimista come Machiavelli, Hobbes (Homo homini lupus) o Joseph De Maistre ed i reazionari, ma che non si mostra ottimista sul potere delle leggi per i già corrotti:
“Sulla terra hanno brillato mille nazioni che non avrebbero mai potuto tollerare delle buone leggi… I popoli, come gli uomini, sono docili solo da giovani, invecchiando diventano incorreggibili; una volta consolidati i costumi e radicati i pregiudizi, volerli riformare è impresa rischiosa e inutile; il popolo non può neanche sopportare che si tocchino i suoi mali per distruggerli, simile a quei malati stupidi e vili che tremano alla vista del medico” (Contratto Sociale, libro II, cap. VIII).
Rousseau muore a Ermenonville, in Piccardia, nella dimora messagli a disposizione dal marchese de Girardin (lui che sempre aveva disprezzato la nobiltà!). Sedici anni dopo i resti furono sepolti con solennità al Panthéon di Parigi. Nel corso del XX secolo sono state portate varie critiche a Rousseau (non dimentichiamo che porta il suo nome persino la piattaforma digitale del grillino M5S) ed al modello utopista da parte di pensatori e filosofi liberali, da Karl Popper a Dario Antiseri. La prima delle obiezioni riguarda l’inesistenza di un criterio razionale attraverso il quale determinare che cosa renda una società utopica perfetta; oltretutto, la ‘società perfetta’ è ritenuta l’opposto della ‘società aperta’. L’inconsistenza attribuita all’utopia ed agli utopisti viene espressa sottolineando come ogni utopista sia totalitario e come l’utopia si fondi su tre presupposti gnoseologici insostenibili: conoscere il tutto (inteso come insieme della società), conoscere cosa è il bene e cosa è il male, una definizione oggettiva di uomo perfetto:
“All’utopista è attribuito di credere che il mondo del suo tempo sia interamente errato e pertanto che sia necessario sviluppare un suo cambiamento totale secondo regole e principi stabiliti dall’utopista stesso. Per i critici dell’utopia, coloro che intendono realizzarla sono avversi ad ogni pratica gradualista e riformista, poiché, dovendo cambiare il mondo nella sua interezza, non pensano che ci sia alcun bisogno di intervenire su problemi e questioni attuali. La possibilità di ripartire dal principio per riedificare un nuovo mondo utopico viene considerata irrealizzabile in termini pratici, poiché non è mai possibile ricominciare da capo: la tradizione e le facoltà intellettuali dell’individuo sono valori acquisiti dall’uomo nel corso della propria vita e non si può in alcun modo liberarsene; la stessa ragione ideale dell’utopista è inevitabilmente frutto di una tradizione precedente”.
(Da Jan Servier, Storia dell’utopia. Il sogno dell’Occidente da Platone ad Aldous Huxley, Roma, Edizioni Mediterranee, 2002; https://it.wikipedia.org/wiki/Utopia)
Questa non è una soap opera dalle puntate indefinite. Piuttosto un timballo o un arancino da cena del Gattopardo (o del commissario Montalbano), con sapidi ingredienti, ma di non agevolissima digeribilità: evito quindi di annunciare un prossimo appuntamento sull’utopia e sul sempre attuale, poliziesco, canagliesco Socialismo Reale o sue ridenominazioni, care al mondo radical-chic, gauche caviar, eco-green-genderfluid… Regime fondato a Pietrogrado nell’Ottobre 1917 (la capitale russa fu riportata a Mosca dai bolscevichi nel marzo ’18), inquisitoriale, scomunicante, omicida (esempio l’eccidio di Ekaterinburg, 1918, e l’esecuzione di Trotckij a Città del Messico nel ’40, ordinata da Stalin) e non di rado genocida. Combattuto, disarticolato, sconfitto, ma rinascente come una fenice con le sue ubbie palingenetiche alla Lenin, o castro-chaviste (declinato in salse narco-populiste, trionfi di corruzione e cleptocrazie, spregio di diritti individuali, talora superficialmente progressiste) o tecno-militariste alla cinese; e le implicazioni con quanto anziddetto su libertà, meritocrazia, utopia, mobilità sociale. Da dove ho preso le mosse per queste riflessioni impressionistiche o un po’ da sciamannone (inimici dicĕrent).