
Nel periodo rinascimentale e post, la filosofia di Platone ebbe una grande influenza, con La Repubblica, base sia alla Città del Sole di Campanella, sia all’Utopia di Moro.
Tommaso Campanella, nato Giovanni Domenico Campanella (Stilo, 5 settembre 1568- Parigi, 21 maggio 1639), è stato un frate domenicano, filosofo, teologo, poeta e molto altro. Processato dall’Inquisizione per eresia nel 1592 ed anni successivi. Nella situazione di acuto degrado della Calabria a fine XVI secolo, per attacchi di pirati ottomani, disastri naturali, malgoverno spagnolo ed ecclesiastico, nell’illusione di un rivolgimento, Campanella progettò, senza valutare a fondo le possibilità di realizzazione, la costituzione di una repubblica ideale, comunistica ed insieme teocratica. Sarebbe stato necessario cacciare gli Spagnoli, ricorrendo anche all’aiuto dei turchi.
Cominciò a predicare dai primi mesi del 1599 l’imminente ed epocale rivolgimento, intessendo una fitta trama di contatti con i pochi congiurati che aderirono a quella fantastica impresa. Le autorità ebbero sentore del tentativo di insurrezione. Il 17 agosto Campanella fugge dal convento di Stilo, è tradito e consegnato agli spagnoli; le testimonianze dei complici lo indicano come capo della cospirazione. Inizia un processo politico ed ecclesiastico per ribellione e per numerose eresie. Per sfuggire il capestro Campanella finge la propria pazzia, nonostante le durissime torture. Nel 1602, l’anno della stesura della Città del Sole, è condannato all’ergastolo a Castel Nuovo, a Napoli. Il frate aveva un temperamento impetuoso, combattivo, sensuale; una fortissima fibra fisica, una vitalità sfrenata, una curiosità acutissima, un’ampia e variata erudizione, una audacia intellettuale senza limiti che lo portava a scandagliare quasi tutte le scienze, aristotelicamente, a volte in modo esondante ed un po’ abborracciato. Si credette persino predestinado da Dio per la missione provvidenziale di realizzare l’unità del mondo, diviso da lotte dottrinali, politiche, religiose. Ebbe forte passione per l’astrologia, la magia, l’occultismo (e fu pure accusato di pratiche demoniache).
Durante tale periodo di reclusione scrisse le sue opere più significative, tra le quali La città del sole, un racconto utopico in italiano, sotto forma dialogica, dove descrive una società teocratica egualitaria, una città ideale governata dal Metafisico, un Re sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, fatta coincidere con la religione cristiana. Il Re sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre ‘primalità’ della metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. Nella città vige la comunione dei beni e pure delle donne. Campanella si rifà a Platone ed all’Utopia di Tommaso Moro; fra i contemporanei del suo utopismo è da annoverare La nuova Atlantide (1626) di Francis Bacon. L’utopismo partiva dal presupposto che, in attesa di realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, si ipotizzavano cambi radicali, come aveva fatto Platone.
Campanella fu infine scarcerato nel 1626, grazie a Maffeo Barberini, arcivescovo a Barletta, poi papa Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV; portato a Roma, carcerato presso il Sant’Uffizio e liberato definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a Roma, dove fu il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche! Nel 1634, però, una cospirazione in Calabria, condotta da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l’aiuto del Papa e dell’ambasciatore francese de Noailles, egli fuggì a Parigi, dove fu benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto dal cardinale Richelieu, egli passò il resto dei suoi giorni al convento parigino di Saint-Honoré, dove morì.
La critica idealistica colse nel pensiero campanelliano l’orientamento verso un moderno immanentismo, con residui della tradizione cristiana e medioevale. Per Silvio Spaventa, Campanella è il ‘filosofo della restaurazione cattolica’, in quanto la proposizione che la ragione domina il mondo è inficiata dalla convinzione che essa risieda nel papato (ma non sarà stata una semplice captatio benevolentiae, usata dal furbo frate?). Non dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: ‘Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome, ma di fatto, perché la ragione governa il mondo’.
(Da Luigi Firpo, Ricerche campanelliane, Sansoni, Firenze 1947; idem, I processi di Tommaso Campanella, Salerno, Roma 1998; https://it.wikipedia.org/wiki/Tommaso_Campanella)
Nel periodo rinascimentale e post, la filosofia di Platone ebbe una grande influenza, con La Repubblica, base sia alla Città del Sole sia all’Utopia. Moro era un politico e filosofo vissuto all’epoca di Enrico VIII, dal quale fu condannato a morte, per tradimento, per rifiutare la separazione della Chiesa anglicana dalla romana. La differenza principale tra l’Utopia (apparsa a Lovanio nel 1516, stampa curata personalmente da Erasmo da Rotterdam) e la più tarda Città del Sole risiede nell’intento delle due opere. Ne L’utopia di Moro si avvertono suggestioni derivanti dal modello platonico, laddove la proprietà privata è bandita. A differenza della Città del Sole, L’utopia è meno strutturata; gli abitanti non devono sottostare a una fitta serie di determinate regole come nella città campanelliana, perché l’intento dell’opera è diverso. Campanella avrebbe voluto realizzare concretamente il suo progetto: l’ intento consisteva in una reale applicazione dei suoi principi e dunque nell’organizzazione della sua città ideale. Al contrario, Moro elabora Utopia per criticare il governo inglese; egli non ha intenzione di realizzare concretamente l’isola di Utopia, ma immagina un governo perfetto per creare un forte contrasto con il governo corrotto dell’Inghilterra di quegli anni, per cui l’Utopia ha un intento critico nei confronti dell’organizzazione della società, ma soprattutto nei confronti delle diseguaglianze che essa prevede; infatti gli abitanti di utopia sono tutti uguali e godono degli stessi diritti. La proprietà privata è abolita perché è considerata come l’origine dei mali, delle diseguaglianze; in Utopia viene abolita, affinché tutti pratichino un lavoro manuale, non per arricchimento personale, ma per il bene comune. Entrambe le società, dunque, si fondano sull’assenza della proprietà privata e delle disuguaglianze, tutto appartiene a tutti e non ci sono né poveri né mendicanti. Il lavoro è rigorosamente organizzato ed esteso tanto agli uomini quanto alle donne, in modo da aumentare il livello della produzione della comunità. Per quanto riguarda la famiglia, essa assume due ruoli completamente diversi nelle due utopie. Per Moro è fondamento della società, essendo una comunità di vita, di lavoro, di educazione e di affetti, quel luogo in cui si forma la personalità di ogni singolo. La famiglia rappresenta un nucleo fondamentale per l’Utopia: una famiglia monogamica. L’uomo si può sposare all’età di 22 anni e la donna a 18 anni, il divorzio è consentito, l’adulterio severamente punito.
Campanella, invece, estende la soppressione dei vincoli familiari a tutti i membri della comunità, considerando l’amore per i figli un enorme incentivo all’avidità ed al clientelismo. Egli propone l’introduzione di teorie eugenetiche sulla selezione dei nubendi per temperare le differenze e migliorare la capacità riproduttiva, la salute, l’estetica stessa dei solari, in quanto la prole è un bene pubblico. Nella Città del Sole non vi sono distinzioni di classi sociali, essendo il lavoro è obbligatorio per tutti. Neppure distinzione tra liberi e schiavi; a questi ultimi, macchiatisi dei reati più gravi, sono destinati i lavori più umili. Anche tra i cittadini liberi vi sono delle differenze; gli uomini di lettere sono esentati dal lavoro perchè si concentrino esclusivamente sugli studi; solo tra loro vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti, i membri delle istituzioni. Per Moro esistono uomini liberi e schiavi per natura. Nel pensiero critico non sono mancate interpretazioni atte a minimizzare alquanto la crudeltà della schiavitù nell’universo utopico, ma nelle utopie rinascimentali la schiavitù è presente ed in stretto collegamento con il pensiero classico, da Aristotele alla tradizione giuridica romana, poiché faceva parte dell’universo economico di Roma, delle colonie, del mondo dell’epoca. Moro scrive che gli utopiani non considerano schiavi i prigionieri di guerra, a meno che non siano stati essi stessi a scatenarla; tuttavia essi riducono in schiavitù i proprî concittadini colpevoli di delitti commessi.
(Da Louis Bouyer, Tommaso Moro. Umanista e Martire, Milano, 1994; https://www.skuola.net/filosofia-moderna/moro-differenze-utopia-citta-sole.html; http://www.evaristogalois.it/nuova_pagina_28.htm)
Immaginiamo di leggere oggi la notizia di una remota comunità che strappa i bambini per allevarli in collegi comunitari, nei quali essi presto dimenticano i genitori allo scopo di eliminare il sentimento d’amore. Penseremmo ad una comunità assurdamente crudele, che viola diritti umani fondamentali e lede, in modo criminale, la libertà di famiglie e minori. Sebbene tale comunità non esista, né sia mai esistita se non sulla carta, tale agghiacciante scenario rappresenta uno dei modi immaginati da alcuni utopisti per uno Stato più giusto. Tra le questioni fondamentali non vi è solo la realizzabilità, ma le implicazioni derivanti dal concepire mondi siffatti. Essa ha un’origine storica, legata ai confini del mondo allora conosciuto. Era possibile situare utopie in qualsiasi luogo del pianeta, poiché alcuni navigatori potevano (teoricamente) sapere se l’isola della quale un utopista scriveva esistesse. Quando il mondo fu completamente conosciuto avvenne il passaggio dell’utopia dallo spazio al tempo, la sua collocazione nel futuro, condizione necessaria per un diverso universo utopico. Nacque così la fantascienza.
Sull’importanza del concetto di libertà nelle utopie, Cristina Perissinotto ha dato alle stampe, nel 2010 l’interessante ‘Né mendicanti né poveri: la libertà nelle utopie italiane del Rinascimento’, quando gran parte d’Italia era un campo di battaglia e saccheggio tra soldataglie straniere, dominando soverchierie e miseria, riassunte nel Sacco di Roma (1527):
“Nel ‘500 poco ci s’interroga su un problema cruciale dell’universo utopistico, quello della libertà. Al tempo di Moro l’idea di libertà presentava caratteristiche diverse dalle nostre. Occorre calarsi in un sistema di valori e in un apparato teorico radicalmente diversi. Se ciò non avviene il mondo delle utopie rinascimentali viene frainteso, visto come aporetico, basato sull’insolubile contraddizione tra giustizia ed eguaglianza della società da un lato e limitazioni alla libertà individuale dall’altro. I concetti di libertà e utopia vengono oggi percepiti come contraddittori. Il fatto che nel Rinascimento si sia (ri)scoperta la formula dell’utopia e che si sia continuato a scriverne, nonostante la contraddizione tra mondo migliore e libertà, fa riflettere. I coevi non le lessero mai come opere di pura fantasia. La limitazione delle libertà personali non nasce tanto dalla necessità di gestire le scarse risorse del mondo contadino e pre-industriale, ma dalla struttura filosofica basata sulla Repubblica di Platone”.
Le utopie di Thomas More, di Campanella, di Anton Francesco Doni, di Francesco Patrizi, di Ludovico Zuccolo, per citarne alcune, esprimono, per Perissinotto, il desiderio di una società stabile e pacifica. Gli utopisti consideravano positivamente un mondo che prevedesse la limitazione sistematica delle libertà personali:
“Nell’Utopia di More la libertà personale è sacrificata in vario modo. Agli utopiani è fatto divieto di viaggiare liberamente nell’isola; per farlo occorre chiedere il permesso ai magistrati, affinché non vi possano essere né mendicanti né poveri. In Utopia ogni viandante riceve ospitalità nelle case altrui per tre giorni, poi deve mettersi a lavorare. Per non dare la possibilità ai vagabondi di andare di casa in casa ogni tre giorni la mobilità viene limitata. Da un punto di vista pratico, tale regola va collegata all’orrore per il vagabondaggio della società tardo-medievale. Oggi la libertà viene da un lato considerata un bene assoluto e dall’altro un bene in costante pericolo. Nelle utopie rinascimentali la libertà non fu mai un bene onnicomprensivo, una priorità, ma un concetto limitato all’interiorità ed alle costanti mutazioni delle sue differenti forme. Alla libertà veniva dato più o meno spazio a seconda della necessità di far funzionare la comunità in modo razionale, efficiente. Cioè un concetto elusivo e proteiforme”.
(University of Ottawa, Quaderni d’italianistica, XXXI, No. 1, 2010, in https://jps.library.utoronto.ca)
I gesuiti vi s’ispirarono, all’inizio del ‘600, per le loro Riduzioni del Paraguay, cioè la creazione di una società che avesse i benefici e le caratteristiche della società cristiana europea, priva dei suoi vizi e aspetti negativi? Gestita con blando rigore: ‘Proibire per salvare’. Probabile.
Nelle giornate dal 13-15 ottobre 2017 il Coordinamento Adriatico ha organizzato a Fiume e Cherso, città natale di Francesco Patrizi, autore de La Città felice (1553), una tavola rotonda su ‘Utopia, utopie. Storia di un’idea. Da Francesco Patrizi alla globalizzazione contemporanea’:
“Il pensiero di Francesco Patrizi – autore di respiro europeo – il suo mondo immaginario han rappresentato il rapporto tra questo pensiero e quello di altri autori di idee utopiche, sino a dibattiti dal sapore più moderno, se non futuribile. Un confronto che ha fatto emergere criticità ed ambiguità. Un mondo utopico non solo necessario, connaturato all’idea stessa di uomo ed alla necessità (messa in discussione, se non a repentaglio, dalla disillusione della modernità) delle generazioni future di riuscire a sognare ed immaginare un futuro di speranzoso progresso, ma anche ineluttabilmente periglioso. Un’insidia connaturata al rapporto tra utopia ed ideologia, riflesso di una relazione, quella tra potere e cultura, costante tensione verso la dominanza dell’una sull’altra”.
(https://www.arcipelagoadriatico.it/le-utopie-da-francesco-patrizi-a-oggi)