
Da un po’ di tempo aleggia, tra i muri di questo studio, la volontà di mettere nero su bianco un viaggio compiuto qualche mese fa nella Transilvania tedesca. Tuttavia, prima di ciò, è divenuto necessario un ripasso metodologico costituito da letture di una certa caratura: Sylvain Tesson, Bruce Chatwin, Paul Morand… e Rudolf Kassner. Quest’ultimo non è uno dei soliti scrittori che si nominano contandoli con l’ausilio delle dita di una mano, né si citano in occasioni particolari ove si discute dello spirito europeo – Chatwin, nativo di Sheffield, lo possedeva? – in marcia verso le latitudini più impervie e sconosciute del globo.
Vita avventurosa
In automobile attraversò il Sahara, dopo un incidente ferroviario vagò sino ad Allahabad per poi tornare a Calcutta e incontrare, affermano “per caso” coloro che non credono nel Fato, Stefan Zweig. Poi giunse il richiamo della Russia zarista, ancora lontana – siamo nel 1911 – dall’arrivo delle orde bolsceviche da percorrere anch’essa in macchina sino alle alture del Turkestan. Infine, Parigi, Roma, Vienna e gli ultimi fasti imperiali dopo la dissoluzione derivante dalla sconfitta in guerra. Kassner non viaggiò mai per caso, né scrisse nulla di bieco o noioso. Tutt’altro. Il nativo di Groß Pawlowitz, intriso fino al midollo delle beltà dell’impero asburgico, ha scritto pagine, capitoli e libri che vanno al di là della grandezza umana, unendosi – forse consapevolmente – ad altri scrittori che citeremo più avanti che della limitatezza umana hanno deciso di dimenticarsene per aspirare all’immortalità.
La libertà e l’abisso
Nel 2023, Magog pubblica “La libertà e l’abisso” da cui è tratto questo passo: «L’indiscreto non ha la stola della grandezza, eppure ha bisogno di cose grandi. Egli ha un falso e perenne appetito per il grande […] per l’avvenimento sommo […] Per questo desidera l’esotico, lo straniero, ciò che appare per subito scomparire, senza obbligare a nulla. Ciò che l’indiscreto ammira, insomma, è l’attore. Oppure, ha un’idea di grandezza all’americana. Preferisce l’uomo eccessivo, il superlativo, l’enorme, l’eroe di un giorno, il miliardario, il lottatore, Roosevelt, tutto ciò che si distacca dall’usuale, l’eccentrico. L’unico modo con cui l’indiscreto entra in contatto con il grande è tramite la caricatura della grandezza.»
Assonanze con Berto Ricci
Chi dovrebbe ricordarci quanto abbiamo appena letto, se non quell’italiano morto vicino a Bir Gandula, in Libia, nel 1941 che scrisse: «Ci sono Inghilterre [leggetele anche Americhe] che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere. E sono quelle, è quello il vero male: là dove prevale, là è il nemico. A chi ci rimprovera di volere la perfezione, si risponda finalmente e fieramente: “sì; non addegna del nome di rivoluzionario chi non la vuole”».
Rivoluzionario lo fu anche Kassner, in quella vertigine dello spirito che lo ha sempre ricondotto, romanticamente, al XIX secolo, a quell’Ottocento di “espressione e grandezza” cancellato dai prodromi della Guerra civile europea tra il 1914 e il 1918. Tornando per un istante all’americanismo e trasvolando verso l’Europa orientale, un altro titano della scrittura e del pensiero come Cioran si è affiancato inconsapevolmente a Kassner: «Vergogna della Specie, simbolo di un’umanità esangue, senza passioni né convinzioni, inidonea all’Assoluto, sprovvista d’avvenire, limitata sotto ogni aspetto, incapace di elevarsi a quell’alta saggezza, secondo cui oggetto di una disputa non può essere che la polverizzazione del contraddittore: così giudicavo io il sistema parlamentare. E invece i sistemi che lo volevano eliminare per soppiantarlo mi sembravano belli senza eccezione».
Kassner è un essere platonico per eccellenza, molto legato all’esoterismo della Vienna del primo Dopoguerra che Giorgio Galli ha sapientemente descritto in un libro che in molti conoscono, ma che non osano citare nelle storiografie sul Terzo Reich. Egli tradusse questo esoterismo in chiave ottocentesca, rivendicandone le pratiche aristocratiche, ove la fisiognomica la faceva da padrona nelle profonde differenze, da lui spiegate, tra lo slavismo orientale – ad esclusione delle discendenze dei Vendi e dei Suebi che attestano un legame genetico slavo dei tedeschi oltre l’Oder – e l’idea indoariana che scorre tra gli scritti di Rahn, Savitri Devi e Kassner. Slavismo che, secondo Kessner e Pierre Drieu La Rochelle è stato poi “corrotto”, o meglio amplificato, nei suoi tratti spirituali dall’avvento del materialismo marxista che ha conglobato – dopo il 1945 – tutte le forme dello slavismo in un unico calderone, bruciando le icone dell’ortodossia in una furia iconoclasta senza precedenti, dimenticando però che anche l’ortodossia, al pari dell’Islam più moderato, non approfondisce il lato metafisico tanto quanto i sovietici avrebbero voluto, poiché rappresentano comunque una ramificazione dello zarismo.
«L’uomo moderno è indiscreto […] non ha la stola della grandezza: all’uomo indiscreto sono precluse le cose grandi. Il suo essere interiore è cavo, scisso, in frantumi. Benché la sua opera possa essere perfetta, manca di forma e di legge: ha il potere di stimolarci, semmai, di eccitarci, ma non di determinarci. L’uomo indiscreto è interiormente dissipato […] è disordine interiore, depravazione profonda […] A chi non è capitato di imbattersi in questa creatura senza ritmo, slavata, inconsistente, dallo sguardo sovreccitato, con la maschera libertina ma esonerata dalla sensualità, in questo essere fatto di opposizioni e di scissioni, senza tensione? È l’erotico triste, il miserevole esteta, il patriota per disperazione […]».
Qui l’affinità di spirito affluisce lungo le acque della Sambre, il fiume più sacro del confine franco-tedesco, ove in volo Antoine de Saint-Exupéry sta tracciando i confini della sua Cittadella: «Ci sono uomini fiacchi incapaci di superarsi. Di una felicità mediocre fanno la loro felicità, dopo aver soffocato la parte migliore di sé. Essi si fermano in una locanda per tutta la vita. Si coprono d’infamia. Non m’importa di ciò che fanno costoro. Non m’importa se vivono. Rifiutano di avere dei nemici al di fuori di sé e dentro di sé. Essi chiamano felicità il marcire sulle loro misere provviste.»
Un classico, secondo il paradigma di Carmelo Bene
Kassner, dunque, è un classico – nell’accezione data alla parola da Carmelo Bene – da studiare avvertendo continuamente le vertigini di un pensiero che profuma di conquista morale e che abbandona «i piani educativi intellettualistici proposti dai dottori del progresso, della democrazia, dell’internazionalismo, del socialismo di sinistra» come disse Drieu un tempo. È sempre “un tempo”, queste poche lettere che fanno eco da una torre d’avorio all’altra, nel tempo dell’individualismo di massa, nello spazio ricoperto di nulla.