
“C’è una cosa che gli uomini non accettano. Loro, gli uomini, sono troppo rozzi. Troppo puerili. Sono orgogliosi, incontentabili, sicuri di sé e dei propri piccoli sistemi.
Tutt’intorno c’è la vita, ma loro si sono innalzati al di sopra della vita.
Quello che non hanno il coraggio di accettare è il dato di fatto, il mistero, la vita stessa”
Di fronte alla prospettiva ventilata di una nuova traduzione di “Dark Laughter”, “Riso nero”, di Sherwood Anderson, ai tempi – ormai sei o sette anni fa – chi scrive era rimasta alquanto tiepida. Non per mancanza di fiducia nei riguardi dei colleghi di Cliquot, tutt’altro, quanto piuttosto perché ne ricordavo a grandi linee la forse datata (del 1932) ma poetica traduzione di Cesare Pavese, e perché, specialmente per quanto riguarda l’opera di traduzione, è spesso vero l’adagio della commedia di Giacosa intitolata “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”. Il timore, ahinoi, non di rado fondato, è quello di trovarsi davanti la fredda risultante di un mostruoso calcolo scientifico piuttosto che quella che è, a tutti gli effetti, un’opera d’arte a sé, frutto della creazione intellettuale del suo autore – in quanto tale, infatti, la legge italiana tutela il diritto d’autore sulla traduzione, e non è di troppo ricordarlo, in questi tempi di azzardato utilizzo di Intelligenze Artificiali.
Discorso assai ampio, troppo per essere affrontato in questa sede, ma che, se è applicabile a tutti i campi dello scibile (e del fattibile) umano, è tanto più preoccupante quando inerisce a un’attività di “artigianato”, come appunto è, a ben pensarci, quella del traduttore. Insomma, oggigiorno le Fernanda Pivano scarseggiano come scarseggiano i Calamandrei nel diritto, e non certo perché manchino alla contemporaneità i mezzi tecnici o l’intelligenza, che al contrario abbondano come e più di prima, bensì per un’impostazione “di sistema”, in larga parte inconscia perfino nei suoi attori.
E però solo i morti e gli stupidi non cambiano idea, per dirla con James Russell Lowell, e ci piace pensare di non essere nessuna delle due cose, almeno per ora. La nuova traduzione di Marina Pirulli innova con garbo, e riesce a rendere accessibile al lettore contemporaneo quella straordinaria commistione di poesia e pragmatismo che informa una certa letteratura americana, di cui “Riso Nero” è l’epitome.
Faulkner ha definito Sherwood Anderson “Il padre di tutta la mia generazione”, ma, come spesso avviene, è un padre più giovane, nell’animo e nell’abito, dei suoi stessi figli, primi fra tutti lo stesso Faulkner ed Hemingway, oltre a Scott Fitzgerald. Sì, perché il romanzo di Anderson, a differenza di quelli dei suoi “figli” putativi (si pensi allo splendido, decadente “Beyond the river and into the trees” o all’età del jazz di “Tenera è la notte”), non risente di quella patina artefatta, un po’ cinematografica, che stuzzica il lettore e lo coinvolge, lasciandolo però al contempo ben consapevole che di finzione narrativa si tratta. “Dark laughter” invece è crudo, moderno, “letteralmente rancido di vita” come il fiume che accompagna il corso dei pensieri del protagonista. John/Bruce è un “fu Mattia Pascal” d’oltreoceano, che lascia moglie e casa attratto dall’ignoto e da un ritorno allo “stato di natura” e al lavoro manuale, ma anche uno zio (più d’America di così sarebbe difficile!) dell’Arturo Bandini di John Fante, che però fa il giardiniere (anticipando di tre anni il guardacaccia de “L’amante di Lady Chatterley”), non scrive e se la cava meglio con le donne.
Già, le donne. Perché “Riso nero” è, in primis un ritratto impietoso della guerra: non solo quella con noi stessi e le nostre ambizioni, ma anche quella tra i sessi, che negli anni ’20 veniva alla ribalta grazie al diritto di voto alle donne e alle flapper girls, e, last but not least, la guerra “vera”, quella da poco terminata e quella che sarà, che Anderson dipinge con una brutalità e un lirismo caotico quasi celiniano: “Tanfo delle trincee; nelle dita, nei vestiti, nei capelli; persistente; fin dentro il sangue; pensieri di trincea, sentimenti di trincea; amore di trincea, eh? […] Buttali per terra, danza su di loro. Quanto sei buono? Quanto è rimasto dentro di te? Che ci fai con l’occhio di fuori e il naso intatto?”.
Amore e guerra, dunque, come nella migliore tradizione dei lirici latini, sì, ma anche un tocco postmoderno, in bilico tra “Matrix” e “Vanilla Sky”: “Fred faceva finta di essere un uomo come tanti, un soldato semplice nei ranghi della vita. Uno strano mondo di finzione. Tienila in piedi. Tienila in piedi. ‘State a galla. State a galla’. E se ti lasci andare per un istante?”… “Apri gli occhi!”.