
Mi perviene, appena pubblicato, un delizioso e poetico racconto in edizione fuori commercio e in formato tascabile dell’amico scrittore Massimo Del Pizzo, Promenade. In copertina su fondo bianco un dipinto di Edward Hopper del 1951, Rooms by the sea, quasi a voler significare l’apertura del quotidiano al fantastico, del finito all’infinito, ovvero il labile confine tra realtà e sogno, che sono poi gli elementi caratteristici della narrativa di questo scrittore (di cui ci siamo già occupati a più riprese su questa testata).
Il racconto appartiene alla piena maturità artistica di Del Pizzo, è sciolto, sognante, intrigante. Si snoda in cinque parti o, come li definisce l’autore, “passaggi” (Promenade, Rond point, Renvoi, Rêverie, Exit), dove si mescolano sogni, memorie, fantasmagorie, rapporti reali e immaginati. Tutto comincia con un amore finito (“disordine e passione della mia esistenza”) e col malessere che questa situazione provoca nel protagonista, che è anche l’io narrante.
Ecco l’incipit del racconto: «Misi a casaccio il segnalibro nel volume, sapendo che non avrei mai letto quel racconto; infatti, appena dopo questa operazione, uscii in fretta, anzi precipitosamente, lasciandomi alle spalle la porta aperta e dirigendomi verso il faro nel buio fitto della notte; ne trassi motivo di sollievo e di angoscia nello stesso tempo».
La precipitosa uscita di casa, la rinuncia alla lettura e la passeggiata notturna verso il faro sono fatti che diventano potenti metafore. Il protagonista, «agganciato (…) a tracce di verità. Ma ancora lontano da poterla agguantare, la verità», vive uno scacco. È come se la realtà fosse diventata all’improvviso incomprensibile (la rinuncia alla lettura) e la verità si mostrasse, se non irraggiungibile, assai lontana (il faro, «che sembra dominare il cielo notturno e che fronteggia le notti sferzate dai venti»).
E qui il raffinato realismo magico dello scrittore fa incontrare al nostro protagonista tre figure emblematiche: l’agopunturista, che con le sue operazioni e le confidenze rappresenta l’appiglio al reale; il farista, che è specchio della solitudine; e la conturbante Eliane, simbolo del desiderio che risorge. «Eliane – dice il protagonista – mi viene dapprima incontro nel piccolo spazio della piccola barca fluttuante, poi subito si tuffa. La calma piatta si stravolge, la barchetta vacilla, beccheggia, ma dopo pochi secondi è di nuovo tutto fermo. Lei riaffiora. Mi dice che si sta bene. I capelli le stanno incollati sul viso come rughe. Sparisce di nuovo sott’acqua, ricompare poco più in là, affonda di nuovo, gorgogliando».
Sogno ad occhi aperti e ricordo degli amori passati, desiderio e delusione, salvezza e perdizione, tutto questo è Eliane. Come la vita. Che è una tempesta ineluttabile, una promenade per l’appunto. E la verità? È forse quel faro lontano che cerchiamo di raggiungere nella temperie della vita?: «Ero solo e solo sarei rimasto per tutto il tempo di quella uscita e il tempo fu lunghissimo perché, una volta allontanatomi dal faro e da ogni altro approdo, io, battello in preda ai marosi, dovevo sfracellarmi contro il muro della solitudine».
Malgrado l’amarezza, malgrado la solitudine, malgrado l’umanità disorientata e “derelitta” di cui facciamo parte, il protagonista (ed è questo il messaggio che, a mio avviso, ci consegna lo scrittore in questo piccolo gioiello letterario) non dispera.
Ecco la conclusione del racconto: «Torno al mio borgo marino, lascio questa città affollata. Ma li osservo tutti passare: sono silenziosi e non sanno dove andare. Devo ripercorrere a ritroso la strada che mi ha portato fin qui. Vagheggio una solitudine imperfetta, un porto secco, una sponda arida. Un libro chiuso, un ago senza sangue, un faro senza luce».