
Ormai quasi una quarantina d’anni fa, in Francia, l’editore Grasset pubblicò l’opera prima – amata da Dominique Venner e ancora curiosamente inedita in Italia – di un giovane Jean-Marc Parisis, intitolata “La melancolie des fast-foods”, che segue le peripezie di Hugues Laroque, “fascista passivo”, dandy, cinico e nichilista. Conoscendo la passione di “gastronauta” e l’impegno al contempo accademico e fuori degli schemi dell’autore di “Cinema e società, al di là della critica” (Tabula Fati, 15 euro, acquistabile qui) nell’ambito della Settima Arte, è venuto spontaneo a chi scrive parafrasare il titolo del romanzo del giornalista di “Liberation” per adattarlo al caso di specie. E però le analogie tra Parisis e Rosati si fermano qui, perché se il primo, con l’intento di scrivere “un romanzo che decifri il reale”, in tempi in cui la destra lepenista in Francia prendeva sì piede, ma non certo con le caratteristiche larochelliane/nimieriane elitarie di Hugues, tratteggia, forse incappando in una provvidenziale eterogenesi dei fini, un personaggio un po’ alla Capitan Harlock, il secondo, con lucidità e intenzione, mira a fornire degli “Orientamenti” (citazione evoliana assolutamente non casuale!) per chi intenda addentrarsi nel dedalo delle sale cinematografiche se non con il piglio dell’esperto, inevitabilmente appartenente a pochi, quantomeno con una salda bussola e il proprio libero pensiero.
Detto questo, come recensire un volume di recensioni? La metaletteratura è un azzardo rischioso, ma la postfazione di Francesco Santarelli offre a chi scrive, giurista di formazione, un appiglio parzialmente autobiografico: la contiguità tra cinema e critica cinematografica e diritto nell’interpretazione della realtà, o, più tecnicamente, l’operazione della sussunzione, che consiste, appunto, nel ricomprendere un dato dell’esperienza concreta o della prassi all’interno di una previsione generale teoretica. Non è un caso che, su un blog di diritto internazionale si fosse insistito per tenere una rubrica intitolata “Cinediritto”, di cui restano ormai tracce solo sul benemerito social Academia), e non è un caso neppure che la maggior parte dei film lì recensiti e commentati fossero western. Il western infatti, come rileva Rosati, è un genere che “ha un’anima precisa, dei suoi codici” e un corredo di tematiche classiche decisamente imponenti (“sete di giustizia e vendetta, una Natura possente e la disperata ricerca di un rifugio sicuro”), e, a rigor di logica può essere una “gabbia stilistica” troppo asfittica per alcuni registi – p.e. i Fratelli Coen. È però anche vero che pellicole come “Il Grinta” “rappresenta(no) l’occasione per interrogarsi sul fatto che magari abbiamo a che fare con un genere che ha esaurito la vena creativa”, e infatti gli sviluppi più curiosi del western negli ultimi anni sono stati quasi tutti esemplari ibridi di marca giapponese, figli più o meno legittimi di Capitan Harlock, come “Cowboy Bebop” e “Trigun”, e perfino “Saiyuki”, tutti manga/anime (il primo poi trasposto anche in serie TV per Netflix) che hanno enucleato elementi del western collocandoli in un contesto space-western, steampunk o, al contrario, semi-tradizionale.
Con questo veniamo anche al Giappone, altro tema d’interesse per l’Autore: minuzioso il saggio che dedica al “Regno di Vetro”, per dirla con Lawrence Osborne, del Giappone visto dall’albergo di lusso di “Lost in translation” di Sofia Coppola, più lirica la recensione di “Patriottismo” di Yukio Mishima, con il suo bianco e nero contrastato (poi reinterpretato in chiave più light da molti, si pensi a “Shadow” di Zhang Yimou) e l’ambientazione nella bolla della stanza degli amanti, che celebrano il rito del loro ultimo saluto mentre fuori la rivolta viene repressa nel sangue. Un po’ come in “The Dreamers” di Bertolucci, il che parrebbe confermare l’assunto marxiano secondo il quale “la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”.
Volendo trovare un difetto al saggio di Rosati, si potrebbe giusto dire, a mo’ di chiusa finale, che se è vero, com’è vero, che i generi cinematografici hanno le loro regole e il critico deve conoscerle e riconoscerle con acribia, la bellezza dell’arte a volte nasce, però, dagli “Holzwege”, i “Sentieri interrotti”, o, citando il titolo di un bel romanzo russo “dove il sentiero si perde”.