
Undicesimo appuntamento della stagione di Teatro Contemporaneo 2024/2025 del Teatro del Sangro/Teatro Studio a Lanciano/Treglio. In scena “Il Baciamano” di Manlio Santanelli, regia Antonio Grimaldi con Anna Rita Vitolo e Andrea de Goyzueta (produzione Teatro del Grimaldello – Salerno ).
Il bello del teatro contemporaneo? Forse il fatto che, con un tavolo, uno sgabello e un baule in metallo, ci si può trovare esattamente nella rivoluzione napoletana del 1799.
È questo lo sfondo storico de “Il baciamano”, l’opera di Manlio Santanelli, andata in scena il 16 marzo al Teatro Studio di Treglio, per la regia di Antonio Grimaldi. Come lo stesso Santinelli ha affermato in un’intervista,si tratta dell’adattamento registico più riuscito dell’opera, poiché coglie ed esprime tutti i momenti di carnalità e vita del testo.
Pochi secondi prima dell’inizio, è Grimaldi il regista stesso che posiziona in scena i suoi attori, legando mani e piedi del gentiluomo giacobino, come un demiurgo che dà il via alle scene. Subito dopo, parte il rituale di vestizione della protagonista femminile, Janara, che è sia strega che madre, donna di vita vissuta, annullata dal marito violento. In un ritmo spezzato e scattoso, il corpo seminudo viene presentato senza veli: è la realtà cruda di una vita di stenti, della vita dei popolani, percorsa dalla fame, dalla rabbia, dalla ferocia.
Possono durare poco gli attimi di sottile vanità della donna mentre si veste: subito è richiamata dai gemiti dei suoi quattro figli affamati. Così, porta in scena un pesante baule, pieno di tre grandi ossa: è il fardello delle sue efferatezze, a cui è visceralmente legata. Culla le ossa, dopo averle lucidate con il coltello, come se fossero figli suoi: le annusa, le coccola, le riveste di panni di lino. Il cannibalismo è diventato una delle sue normali occupazioni domestiche, vissute come un dovere coniugale.
Amore e odio, carne e sangue: gli opposti che il regista Grimaldi fa vivere nell’antro buio e maleodorante di Janara. E la donna diventa catalizzatrice delle energie di vita e di assassinio: il suo ventre fa nascere e fa morire, proprio come nella narrazione della storia di Ficuciello, in cui il parto è prefigurazione di morte.
Le immagini sono forti, i fermo-immagine incisivi, gli oggetti di scena provocano sensazioni di ribrezzo nello spettatore, come per la maschera di maiale e per il catino di acqua che “non purifica”, ma piuttosto insudicia.
Solo un piccolo, infantile, desiderio rimane della femminilità erosa di Janara: quello di ricevere un baciamano almeno una volta nella vita. In questo frammento di fanciullezza commuovente, la magistrale interpretazione di Anna Rita Vitolo tocca il suo punto lirico più alto. È da qui che nasce la vicinanza di intenti e l’affetto adolescenziale con l’intellettuale giacobino, interpretato da Andrea de Goyzueta, di cui subito si nota la grande capacità di restituire una recitazione semplice e vera.
La distanza di vita e di estrazione sociale è soprattutto una differenza di linguaggio, dialettale dell’una e forbito dell’altro, ma anche di corpo: le pose, l’uso dello spazio, il punto da cui scaturiscono le azioni sono opposti. Eppure, i due riescono a incontrarsi, pur in pochi secondi di contatto: un amplesso condiviso che sfida tutte le distanze. Il loro incontro continua anche dopo la morte, quando il lavaggio del corpo di lui da parte di lei prolunga la tensione sensuale, disperata e impossibile.
Così si conclude tragicamente questa favola irrealizzabile, dall’alto respiro poetico, in cui il recupero del linguaggio del corpo riveste una centralità assoluta. Gli attori sono corpi vivi, mossi da un ritmo ogni volta diverso: ora sospeso, ora incalzante, ora travolto da colpi di scena improvvisi. Inspiegabilmente, in tutta questa carnalità ed efferatezza, il regalo che resta in mano agli spettatori è la tenerezza, come di una pura e delicata carezza, o come il più soave dei baciamano.