
C’è una tela che ci rappresenta meglio di qualunque bandiera, più di mille manifesti, più di qualsiasi Costituzione: “L’Empire des Lumières” di Magritte.
Una civiltà contraddittoria
Chi è l’Europa? È la figlia primogenita della contraddizione. È il ventre da cui sono nati sia il diritto romano, sia l’Inquisizione, sia la sinfonia di Beethoven, sia il silenzio di Auschwitz. È la terra che ha messo in riga il pensiero e ha poi marciato in fila verso l’abisso. Nulla in noi è lineare. Nulla è coerente in ciò che siamo realmente.
Autonarrazione e disincanto
Eppure, eccoci qui, a raccontarci come se fossimo il volto civile del mondo. Ci rifugiamo nei santini laici della modernità – diritti, uguaglianza, inclusione – come se bastassero a far dimenticare i pozzi bui che abbiamo scavato sotto i piedi. Predichiamo il progresso, con l’aria di chi ha già raggiunto la vetta, e intanto inciampiamo su ogni problema reale: demografia, identità, sicurezza, sovranità.
L’Europa ama la luce, ma detesta l’ombra che la rende visibile. Per questo ha smesso di guardarsi davvero. Ha preferito diventare una caricatura di se stessa: l’Unione come una sorta di Disneyland istituzionale, Bruxelles come un confessionale della coscienza globale. Abbiamo venduto la nostra profondità in cambio di una superficie liscia, levigata, inoffensiva.
Verità che non vogliamo più vedere
Il punto non è più sapere dove andiamo. Il punto è sapere chi siamo – senza trucco e senza maquillage ideologico. Perché noi europei siamo quelli che hanno inventato l’umanesimo, sì, ma anche il colonialismo. Quelli che parlano di pace, mentre le loro industrie sono eccellenze in sistemi terrestri, missili e aereospazio. Quelli che sognano l’unità, mentre tirano su muri linguistici, economici, religiosi, perfino alimentari. Siamo un continente che si è autoanalizzato fino all’ossessione e che oggi rifiuta ogni diagnosi scomoda.
Kalergi sognava un’aristocrazia dello spirito, una fusione di sangue e cultura per andare oltre le divisioni nazionali. Ma siamo finiti altrove: la tecnocrazia senz’anima ha divorato l’ideale, l’ingegneria sociale ha sostituito la tradizione e la burocrazia ha rimpiazzato la politica. Non abbiamo più un progetto di civiltà: abbiamo una procedura.
Una domanda senza risposta
E mentre ci perdiamo nei refusi delle direttive, ci scordiamo che l’Europa non è mai stata una soluzione, ma una domanda. Una domanda tragica, irrisolta, mai chiusa. Non c’è Europa senza lacerazione: tra il pensiero e l’azione, tra il sublime e il baratro, tra la cattedrale e la trincea. Noi siamo nati dal conflitto, non dall’unanimità. E per questo siamo vivi.
Essere europei non significa sventolare valori astratti, in marcia dietro la prossima moda morale. Significa avere la schiena abbastanza dritta da reggere il peso del passato senza farsi schiacciare. Significa sapere che la civiltà non è un premio, è una condanna: quella di dover pensare, sempre, anche quando fa male.
L’identità smarrita
L’Europa non è il migliore dei mondi possibili. È il laboratorio dove il mondo, da secoli, viene interrogato, dissacrato, ricostruito e poi di nuovo messo in dubbio. È il continente che più si è odiato, proprio perché ha osato conoscersi. E ora che non si conosce più, ora che si racconta solo favole a lieto fine, rischia di diventare un soggetto neutro, anestetizzato, pronto a essere governato da chiunque sappia offrire una narrazione più forte.