
Ortona, 1943. Il borgo adriatico sul limite estremo della Linea Gustav diventa protagonista della guerra dapprima, con l’imbarco della Famiglia Reale il 10 settembre 1943 su Regia Nave “Baionetta” poi, nel terzo Natale di guerra, per una breve quanto sanguinosa battaglia.
“Die Festung Ortona ist bis zum letzen Mann zu halten – la fortezza di Ortona va difesa fino all’ultimo uomo” tuona Adolf Hitler. E il 3° Reggimento Fallschmirjager della Luftwaffe, schierato nel piccolo centro abruzzese, è deciso a non cedere un metro ai soldati canadesi che, nell’inverno del 1943, risalgono lentamente la sponda orientale della Penisola.
Prima dello sbarco di Anzio e dei terribili scontri ai piedi dell’abbazia di Monte Cassino, Ortona è cruciale sia per gli Alleati sia per i tedeschi: è infatti la porta a Pescara, collegata a Roma dalla via Tiburtina. Per i primi, prendere Ortona vuol dire quindi raggiungere Roma in tempi brevi; per i secondi, reggere ad ogni costo è fondamentale per difendere il fianco orientale del territorio occupato.
Nessuna delle due parti è decisa a rinunciare all’obiettivo e, in appena otto giorni, tra il 20 e il 28 dicembre, a Ortona si scatena l’inferno.
“Bagnato fradicio, un una palude di fango, contro un nemico che combatte più duramente di quanto abbia combattuto prima, i canadesi attaccano, attaccano e attaccano… le colline, i terreni agricoli e i frutteti sono un orribile infuso di fuoco… Ascolta la eco di quelle granate!”
La voce di Halton del CBC (Canadian Broadcasting Center) porta la battaglia nelle case degli ascoltatori canadesi in patria. Qualcosa oggi normale, grazie ad internet e alla televisione, ma all’epoca rivoluzionario: niente cine-giornali di propaganda, niente articoli pubblicati dieci, venti giorni dopo la fine di una battaglia. La trasmissione è diretta, cruda come si addice ad ogni bravo radio-cronista. E aggira quella censura militare diffusa tanto fra i paesi dell’Asse quanto fra gli Angloamericani. Ciò che nell’era della comunicazione digitale pare inverosimile, all’epoca era una dura realtà: nessun esercito voleva parlare di perdite, di lutti e di sconfitte poiché i messaggi da veicolare nei rispettivi paesi non demoralizzare l’opinione pubblica. Ma, volente o nolente, Holton può solo dire la verità. Non registrava in uno studio insonorizzato ma nelle campagne e nelle vie di una località che, giorno dopo giorno, stava trasformandosi nella “Stalingrado Italiana”, come l’ebbe a definire la stampa d’oltreoceano:
“I tedeschi stanno cercando, per qualche oscura ragione, di ripetere una Stalingrado in miniatura nella sfortunata Ortona” scriveva in quei drammatici giorni il New York Times.
Matthew Holton è un navigato giornalista, con alle spalle la narrazione di battaglie della seconda guerra mondiale e, prima ancora, da corrispondente in Europa, testimone dell’ascesa del nazional-socialismo in Germania e della guerra civile in Spagna. E ad Ortona non si trova per caso: la sua lunga esperienza è coerente alle aspettative del comandante in capo dell’VIII Armata britannica Sir Bernard Law Montgomery che, memore dei successi propagandistici sovietici a Stalingrado, vuole una narrazione completa di quella durissima battaglia della Campagna d’Italia, tale da esaltare il valore dei soldati del Commonwealth e (forse) capace di mostrare ai russi che il fronte italiano non è meno duro del fronte orientale.
In effetti, così conclude Holton l’indomani della ritirata tedesca da Ortona:
“Non è stato l’inferno. Era il cortile dell’inferno. E’ stato un vortice di rumore e di acciaio caldo che si spacca […] Gli uomini feriti si rifiutano di andarsene […] Il campo di battaglia è una cosa spaventosa da vedere, nel suo fango, rovina, morte e la sua desolazione“.
Siamo d’accordo, Ortona fu il cortile dell’inferno: della città non rimaneva in piedi neanche una pietra. Ma il fuoco dell’inferno attendeva tedeschi e canadesi in altre località destinate ad insanguinare la strada per Roma: Anzio, Nettuno, Sermoneta, Fondi, Montecassino, città-tomba di migliaia di militari alleati, germanici e della RSI.
E con civili duramente provati prima, durante e dopo gli scontri. La Ciociara docet.
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