
La storia insegna che le corse al riarmo finiscono sempre e solo in un modo: guerra. Certo, è innegabile che una politica di investimenti nel settore militare costituisca un valido deterrente nei confronti di possibili aggressori così come la potenza militare è sinonimo di sovranità ma quando si comincia una corsa frenetica per riempire gli arsenali, tutto questo quasi inevitabilmente dovrà trovare naturale sfogo in una guerra. Che tipo di guerra e a che latitudine non è possibile prevederlo ma che queste armi debbano trovare sfogo è quasi una certezza, dove il quasi è molto aleatorio.
Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha approvato ReArmEu, il piano di riarmo proposto dalla Von der Leyen, presidente della Commissione europea, e che prevede un impegno di circa 800miliardi di euro di investimenti a debito per acquistare armamenti.
Cosa c’è nel Riarm
Il piano, che si struttura in quattro anni, in realtà impegna l’Ue solo per un fondo di prestiti pari a 150miliardi, mentre i restanti sono a carico dei singoli Stati benché saranno svincolati dal Patto di stabilità. Per l’acquisto delle armi l’Europa scopre che esiste un debito buono… ma è una reale esigenza? Certo lo scenario ucraino e la reale pressione russa sugli Stati baltici (Polonia compresa) e Romania può giustificare delle preoccupazioni, anche se è poco credibile che la Russia abbia questa effettiva forza, ma gli investimenti europei sono cresciuti dai 147miliardi nel 2014 ai 279miliardi del 2023, secondo i dati diffusi dall’Agenzia europea di difesa, e le stime per il 2024 parlano addirittura di 326miliardi. Non solo, il dato ancora più eloquente è che Francia, Germania e Regno Unito insieme spendono già il doppio di quanto investe la sola Russia in armamenti. Bruxelles, quindi, già spende nel settore della difesa e non poco, addirittura più della Russia. Evidentemente sta spendendo male ma perché ulteriori investimenti e a debito?
Immaginare gli europei impegnati in una guerra come quella che purtroppo stiamo vedendo in Ucraina è molto difficile, sia perché siamo una popolazione molto vecchia e che in trincea ci sta molto scomoda, sia perché nel nostro immaginario collettivo la guerra è qualcosa di antistorico, di superato nonostante l’umanità sia ancora oggi attraversata e devastata da decine di conflitti. Questo non esenta l’Europa né la protegge dall’eventualità di un conflitto che anzi un frenetico riarmo evoca ma è probabile che bisogna leggere fra le righe. Ad esempio, il ceo di Volkswagen ha già dichiarato di poter/voler riconvertire fino al 50% della sua produzione nel settore militare per compensare il calo di questi ultimi anni nel settore automobilistico. Il riarmo, quindi, come strumento per rilanciare un’economia industriale europea in evidente affanno negli ultimi anni. Ma non solo, perché nonostante la buona volontà delle industrie europee, realmente gli acquisti di armamenti saranno concentrati negli Usa. L’Europa così strizza anche un occhio a Trump perché sa benissimo di non poter fare a meno degli Usa, sia per la sua difesa ma anche per la sua economia.
Gli strali di Trump ancora una volta, al netto della loro irruenza, si rivelano decisivi nelle dinamiche internazionali e in particolare di quelle europee. Ma a giocare con il fuoco il rischio è di bruciarsi e soffiare continuamente sui venti di guerra non significa allontanarne la minaccia. È bene ripetersi che ogni riarmo conosciuto nella storia dell’umanità ha trovato come epilogo lo scoppio di guerre e spesso per cause magari secondarie e quindi imprevedibili. L’esempio più lampante e forse anche il più recente, è lo scoppio della cosiddetta Prima guerra mondiale, dove l’assassinio nel 1914 dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo ha, imprevedibilmente e rocambolescamente, innescato una miccia che si è fermata solo quattro anni più tardi e dopo oltre 16milioni di morti. Un focolare, quello balcanico (qui), che non si è mai spento e che in questi giorni torna ad essere ventilato con la minaccia di arresto del premier della Repubblica di Srpska (o Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) e con le manifestazioni a Berlgrado. Troppe tensioni scuotono l’Europa, sia ai suoi confini orientali sia al suo interno, senza dimenticare che forse il confine più importante resta un Mediterraneo caldo. Sapranno le sue élites interpretare, gestire e guidare costruttivamente questi tempi o ne saranno travolti?