
Il tema della regolamentazione del fine vita o, fuori di ogni eufemismo, del suicidio assistito, è fatalmente destinato a dividere gli schieramenti politici, come in passato li divisero altre tematiche di natura etica, quali l’introduzione del divorzio e la normativa sull’aborto. È fatale che sia così; tuttavia in questo caso si registrano due singolari anomalie. La regolamentazione sta partendo dal basso, da due Regioni governate da maggioranze di opposto orientamento politico, come la Lombardia e la Toscana, con l’alibi di una sentenza della Corte Costituzionale che chiede al Parlamento di legiferare in materia. Proprio tale sentenza rappresenta la seconda anomalia, indice del rapporto ormai asimmetrico fra poteri che si è venuto consolidando nel nostro paese.
Il legislatore
Buon senso vorrebbe che il Parlamento legiferasse di propria iniziativa, non sotto la pressione della Corte è, il cui compito dovrebbe tornare a essere quello di stabilire la costituzionalità di una legge, non di spiegare ai deputati, come a scolaretti con le orecchie d’asino, come legiferare. Al tempo stesso un’antica massima latina insegna che lex superior derogat inferiori. È assurdo di conseguenza che su una questione di vita o di morte le singole Regioni possano agire autonomamente, come se fossero altrettanti Stati sovrani.
Al di là di queste considerazioni di carattere giuridico-formale – ma la forma, nell’ambito giuridico, è anche sostanza – la questione della legislazione sul fine vita suscita altre considerazioni. In primo luogo, occorre sgombrare il campo dal pregiudizio secondo cui l’opposizione all’allargamento delle condizioni per trattamenti di tipo eutanasico costituirebbe una sorta di invasione di campo della Chiesa cattolica nelle competenze dello Stato. Questioni come l’aborto o il suicidio assistito riguardano tutti, cattolici e laici, e sarebbe un errore confinare il dibattito in una sfera confessionale.
Il monito di Bobbio
Un esempio fra tutti. Non c’è alcun dubbio che Norberto Bobbio sia stato un grande pensatore laico, anzi non privo di acide venature laiciste, che lo portarono all’università di Torino a scagliare per terra la tesi di laurea che un giovanissimo Alfredo Cattabiani aveva dedicato a Joseph de Maistre. Ma, pur continuando a definirsi non credente, intervistato da Giulio Nascimbeni per il “Corriere della Sera” alla vigilia del voto per il referendum sull’aborto, si dichiarò contrario alla legge sull’interruzione di gravidanza. L’intervista, reperibile sul sito https://disf.org/educational/norberto-bobbio-intervista-filosofo, terminava con queste considerazioni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere».
Il cristianesimo
Per quanto riguarda il suicidio assistito, la questione è più complessa. Altro è il non uccidere, altro il non uccidersi. Presso gli antichi romani, il suicidio era considerato un diritto del cittadino e Seneca riteneva saggio uccidersi quando il corpo fosse divenuto “un edificio putrido e decadente”. Il Cristianesimo condanna il suicidio, al punto da negare a lungo sepoltura in terra consacrata a chi si toglieva la vita (ricordate la Ballata del Michè: “questa sera alle tre, nella fossa comune sarà, senza un prete e la messa perché di un suicida non hanno pietà”). Eppure persino Dante Alighieri, il più alto interprete della spiritualità cattolica, sull’argomento era piuttosto elastico. Condannava all’Inferno Pier delle Vigne, ma “graziava” Catone l’Uticense, che col suo gesto difendeva quella “libertà (…) ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.
Il suicidio assistito della cui applicazione si discute in questi mesi è di indole profondamente diversa. Non è il gesto coraggioso di chi sacrifica se stesso in nome della libertà – il suicidio di un Catone, ma anche di un Jan Palach, – ma la scelta disperata di chi chiede di essere affrancato da sofferenze considerate insostenibili e, vista l’impossibilità di una guarigione, inutili. La Chiesa cattolica lo condanna, così come condanna l’interruzione dell’alimentazione artificiale, mentre accetta la fine dell’accanimento terapeutico. C’è un po’ di casuistica gesuitica in questa distinzione, e mi scappò questa constatazione in quinta ginnasio, davanti al mio padre di religione, che disgraziatamente era un gesuita. Però, come mi rendo conto oggi, costituisce pur sempre un punto fermo contro il rischio di un allargamento indiscriminato delle pratiche eutanasiche.
La propaganda radicale
Intanto, però, su di un’opinione pubblica divisa esercita un’influenza crescente la propaganda radicale, che ha celebrato con l’enigmatico slogan “Liberi subito” l’approvazione della legge regionale toscana. Il destino dei “sepolti vivi” in un corpo magari privo di comunicazioni con l’esterno e vittima di dolori lancinanti ci commuove tutti, anche perché, pur facendo i debiti scongiuri, sappiamo bene che quella sorte potrebbe toccare anche a noi. Come, del resto, a chi è contrario al divorzio può capitare di trovarsi dinanzi ai cocci di un matrimonio andato a pezzi.
Norme più estensive
Non sarebbero inopportune, però, alcune considerazioni. Da più di mezzo secolo i radicali fanno leva sui casi pietosi per introdurre normative sempre più estensive. Al tempo della campagna per il divorzio, facevano presente i casi delle mogli degli ergastolani o delle “vedove bianche” di emigranti che si erano fatti altrove un’altra famiglia. Oggi l’ergastolo non coincide più col “fine pena mai” e invece degli emigranti abbiamo gli immigrati; ma più un matrimonio su due termina con un divorzio. Anche al tempo delle lotte per l’aborto si fece leva su casi limite: donne ingravidate dai loro stupratori, gravidanze a rischio per la diossina dopo il disastro di Seveso, condizioni economiche precarie di ragazze madri “sedotte e abbandonate”. Nel giro di pochi anni, si è finito per ricorrere come fosse un anticoncezionale all’aborto “libero e gratuito” (mentre la sanità pubblica si guarda bene dal fornire il latte in polvere per le puerpere). Si abortisce perché la “pillola” può far male (è vero), il profilattico è fastidioso (è vero anche questo), un figlio ha dei costi mal sostenibili per una coppia e ancor meno per una donna single non supportata da una famiglia. Nel 1983, si eseguivano 38,2 aborti ogni 100 nati; in seguito il numero di quelle che nel gergo eufemistico della burocrazia sono chiamate IGV, interruzioni volontarie di gravidanza, è decisamente diminuito, per una maggior attenzione alla prevenzione, ma con ogni probabilità anche per la diffusione della cosiddetta pillola del giorno dopo (o dei cinque giorni dopo) per la cui somministrazione non è più necessaria la ricetta.
Per quanto riguarda il suicidio assistito, si pone un problema di ordine non solo filosofico, ma economico e in senso lato sociologico. È noto che i progressi della scienza medica hanno comportato un considerevole accrescimento della longevità soprattutto in Italia, nazione al quinto posto nel mondo per aspettativa di vita. È altrettanto noto che questi dati positivi comportano serie criticità non solo per i conti pubblici e per il sistema sanitario, in seguito alla diffusione fra gli anziani di malattie croniche invalidanti, ma anche per l’economia delle famiglie. I vecchi, sino a un certo periodo, possono costituire una risorsa, prendendosi cura dei nipotini, alleviando le fatiche delle madri che lavorano, e magari integrando i redditi familiari con le loro pensioni e i risparmi accumulati in una vita di lavoro (in anni in cui per chi lavorava, anche in impieghi modesti, era possibile accantonare denaro e comprare una prima e magari una seconda casa).
Una volta perduta l’autosufficienza, purtroppo, da risorsa si trasformano in un peso: le loro pensioni non bastano a pagare le rette delle case di cura o il costo di una badante, che comunque solleva solo in parte i familiari dall’onere e dalla responsabilità dell’accudimento. E in più la barbara pratica ospedaliera di dimettere i pazienti subito dopo un intervento, senza verificare se in casa possono usufruire di un’adeguata assistenza, accentua molte criticità. In certi casi la massima secondo cui un padre è in grado di mantenere cinque figli, ma cinque figli non sono capaci di mantenere un padre trova un triste riscontro. Occorre aggiungere, onestamente, che alcune derive perverse nel mercato del lavoro hanno fatto sì che oggi anche un laureato o una laureata impegnati in settori un tempo remunerativi, dall’avvocatura alla medicina, dal giornalismo al credito, incontrino difficoltà a ottenere un reddito pari a quello dei loro genitori. È fatale che guardino ai beni dei padri e delle madri come una risorsa per mantenere il tenore di vita cui sono abituati. Certo, solo una piccola parte dei figli di genitori affetti da patologie croniche e invalidanti condivide il cinismo dei protagonisti di certe commedie all’italiana; ma la tentazione di far sottoscrivere con una “firmetta” un testamento biologico, di enfatizzare davanti a una commissione le sofferenze dei genitori, potrebbe essere senz’altro forte.
Homo consumens
Paradossalmente, inoltre, questi vizi privati potrebbero trasformarsi in una pubblica virtù, rivelandosi funzionali agli interessi collettivi, visto che il mantenimento di un anziano costa allo Stato, fra pensioni, terapie e lungodegenze, denaro che potrebbe essere risparmiato. Il tutto, purtroppo, si inscrive in una visione della società in cui l’uomo è apprezzato e tutelato sino a quando riesce utile come produttore e/o consumatore. Quando non assolve queste funzioni, finisce per divenire di troppo. E magari anche per il fatto di sentirsi tale rischia in certi casi di sentirsi indotto, sotto la pressione sociale, a chiedere con una firmetta di “togliere il disturbo”. Stretta fra un’età pensionistica sempre più elevata e un sistema assistenziale e sanitario sempre più avaro di prestazioni, quella che una volta veniva chiamata l’età libera rischia di assottigliarsi ulteriormente. È una sorta di pena del contrappasso per i contestatori degli anni Sessanta, che chiamavano “matusa” o peggio “semifreddi” i genitori e che ora rischiano di subire un trattamento molto peggiore da una società che per altro sono stati loro a creare.
A tutto questo si aggiunge un altro pericolo: che il ricorso all’eutanasia per i malati afflitti da maggiori sofferenze scoraggi una ricerca medica incentrata sulla prevenzione delle patologie senili croniche e sulle cure palliative. È una logica ragionieristica, certo, ma da almeno trent’anni la sanità è in mano ai ragionieri, se non per il titolo di studio, per lo spirito. E, per quanto possa suonare atroce ricordarlo, levare la vita costa molto meno che alleviare la sofferenza rendendola degna anche a novant’anni di essere vissuta.
Viva il suicidio assistito! La vita non è dello Stato né di una confessione religiosa. Per sola volontà dell’interessato (e con garanzie, per evitare eredi furbetti…). E avanti col testamento biologico..
Bobbio l’ho conosciuto bene. Una fama mediatica in buona parte usurpata, come quella di Pertini e tanti altri ‘padri nobili’….