
Cinquanta anni fa, a quest’ora, Sergio Ramelli stava chiudendo il bloccasterzo del suo ciclomotore sotto casa, quando venne raggiunto da molteplici aggressori che lo tempestarono con violenza inaudita a colpi di chiave inglese, accanendosi anche a corpo morto, sfondandogli il cranio. Nella pozza di sangue vi era frammista la poltiglia della sua materia cerebrale, cioè le sue idee, le sue opinioni. Evidentemente non aveva il diritto di averle, ancor più che professarle. In effetti, in un clima d’odio che solo chi ha realmente vissuto può con pudore rammemorare e tenere con sé, un diciottenne morirà dopo settimane di coma profondo solo perché in un tema di italiano aveva sottolineato come i primi due omicidi politici commessi dalle Br non fossero stati condannati dai partiti e dai giornali democratici.
Giuseppe Culicchia, dopo i due volumi dedicati a Walter Alasia (già suo cugino), brigatista che con Ramelli condivideva la giovane età e comuni passioni, chiude la sua trilogia sugli anni di piombo con un libro che cerca di ricostruire la vita e la morte di un ragazzo in un tempo tragico e senza sconti in cui «Caino era fratello di Abele».
Scrive con coerenza ed onestà intellettuale, si sottrae a ogni condizionamento e fa cadere “Tutti giù per terra” – per parafrasare uno dei suoi romanzi più noti – cioè trasmette un sobrio invito per chi può sottrarsi alle ipocrisie morali e l’indolenza del conformismo. Ci invita cioè a prendere coscienza che il valore delle persone è sempre al netto di un’adesione automatica al canone dominante, tra condizionamenti ideologici, obblighi e cancellazioni indotte dalla inerzia della logica del potere che conduce irrimediabilmente alla rimozione dell’altro da sé.
Gli esempi di vita concreti sono i carnefici delle idee astratte.