
Come sarebbe un giallo di Simenon se fosse ambientato nella Contea? A questa domanda – e non solo – risponde “Lud nella Nebbia” di Hope Mirrlees, scritto nel 1926 ma tradotto in italiano solo alla fine dell’anno scorso da Cliquot. Il romanzo in questione, “denso come un dipinto di Bruegel, delicato come il respiro dell’ala di un colibrì” (Lin Carter) è il terzo della scrittrice scozzese, che ha esordito con la Hogarth Press dei coniugi Woolf diventandone la “figlia spirituale” ed è tra le influenze di T.S. Eliot, ed è un patchwork di generi letterari apparentemente inconciliabili: un fantasy, un giallo, una riflessione sociologico-giuridica, un racconto “di formazione” sull’uomo e sullo spartiacque dell’adolescenza.
Il fantasy
Quanto al primo elemento, il fantasy, è il più ovvio: ci sono le “creature fatate” e la loro “frutta”, che, se mangiata, fa diventare gli assennati e concreti abitanti di Lud, dediti alla buona tavola e al giardinaggio (vi ricordano forse un certo Bilbo Baggins?) dei sognatori scapestrati pronti a partire all’avventura verso le spaventose Marche Elfiche, senza dire dei loro “nomi parlanti” (Cantachiaro, Malosguardo, Fuordacqua), bestia nera dei traduttori e però antesignani tanto di quelli degli hobbit tolkieniani, quanto dei protagonisti del ciclo di romanzi di “Harry Potter” di J.K. Rowling.
Il giallo
Il giallo invece si manifesta nella riapertura di un caso di omicidio avvenuto parecchi anni prima, che fornirà l’occasione, tra l’altro, per alcune considerazioni davvero illuminanti sulla legge. Già, perché se Julius Evola predicava di “Cavalcare la tigre” e Cristina Campo parlava di “tigre-assenza”, anche la Mirrlees tira in ballo una tigre, e però questa tigre è una “tigre addomesticata”: la Legge. Uno degli aspetti più curiosi della trama, infatti, è che, per due terzi abbondanti del libro, alla “frutta fatata” tanto disprezzata dai luditi ci si riferisce tramite una fictio juris, rubricandola sotto i nomi di alcune pezze di tessuto, il cui contrabbando è vietato, vietatissimo. A un certo punto, però, mastro Nataniel, l’unico che avrà il coraggio di recarsi nel temuto Paese delle fate non per incantesimo ma per amore di suo figlio, dice all’amico mastro Ambrogio, in un lampo di lucidità degna di un Windscheid o di un von Savigny: “Ricordate cosa diceva mio padre, che la Legge è il sostituto umano della frutta fatata? Si crede che tutti gli oggetti fatati siano trucchi senza consistenza: illusioni. Ma l’essere umano non può fare a meno delle illusioni, così se n’è creata un’altra forma: il mondo secondo la Legge, soggetto a nient’altra regola che alla volontà umana, dove l’uomo gioca con i fatti a suo piacimento, e dice: ‘Se lo desidero, un uomo abbastanza vecchio da essere mio padre può diventare mio figlio, e se voglio posso trasformare la frutta in seta, e il nero in bianco, poiché questo è il mondo che ho creato e qui io sono il padrone’. E poi crea un mostro che lo abiti: l’uomo secondo la Legge, che è come un giocattolo meccanico che si comporta esattamente come ci si aspetta da lui, e non è più simile a voi o a me di quanto non lo siano le creature fatate”.
Il potere della parola
Questo non fa soltanto riflettere sul tema del “potere della parola”, su come nominare le cose conferisca una forma di potere originario su di loro, tematica che, non a caso, informa anche un altro giallo sui generis, “Il nome della Rosa” di Umberto Eco – Jorge de Burgos nel finale dirà proprio: “È segno della razionalità umana anche la parola e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell’uomo è necessariamente buono”, ma anche su quale genere di uomo possa contrastare questa deriva: e se nel “Nome della Rosa”, ambientato in un medioevo potentemente irrazionale, l’eroe è il razionale Guglielmo da Baskerville, in “Lud nella nebbia”, città di uomini pieni di common sense, è invece l’eterno adolescente con la testa tra le nuvole mastro Nataniel Cantachiaro. Uno capace di osare e “cavalcare il vento”, piuttosto che “la tigre”.