
“Sto scrivendo tra le lacrime, piango di felicità per l’armonia che Dio ha infuso nella vita di ciascuno, creando ogni uomo come suo tempio.”
Nel 1958 Boris Pasternak riceve il Nobel per la letteratura. Lo rifiuta per non essere espulso. Ringrazia l’assise svedese e per questo in patria viene definito traditore, pecora rognosa, radiato dal sindacato degli scrittori. Per Calvino la premiazione è dovuta a una commistione politica. Sergio d’Angelo era impiegato a Radio Mosca. Nel maggio del 1956 Pasternak gli affida il manoscritto dicendo: “Questo è il Dottor Zivago, che faccia il giro del mondo.” E lo farà! D’Angelo lo contrabbanda a Giangiacomo Feltrinelli e sarà uno scoop eccezionale. Il partito comunista italiano osteggia la pubblicazione e caccia il giovane editore.
Il panorama di quei momenti è impressionante. C’è stata la strage dei poeti. Alexandr Blok avversato dalla Ceka muore per “mancanza d’aria”. Vladimir Majakovskij si spara al cuore per l’amante, la giovane attrice Veronica, ma sembra che la vera amante fosse la rivoluzione che lo aveva tradito. Esenin si strozza con la cinghia di una valigia e prima scrive una poesia con il sangue. Gli scrittori della rivista “Novaja Zizn, la Vita Nuova, scompaiono negli abissi senza l’ingombro di un processo. Il suo direttore Gorky e il figlio Peskov avvelenati muoiono.
Detto e ridetto la rivoluzione russa è una Medea che uccide i figli suoi. Con i processi farsa dello zar Iosif Stalin scompaiono: Radek, Bucharin, Rykov, Zinov’ev, Kamenev, Ezov… I compagni di Lenin. Trotsky picconato in Messico è l’ultimo erede trucidato. C’è stato l’assalto al cielo ma gli angeli guerrieri hanno fatto buona guardia.
Il Grande terrore, una nuova apocalisse, avvolge la terra russa e Pasternak scrive una storia d’amore. Amore che forse recepisce nella sua conversione dall’ebraismo al cristianesimo dove, sebbene in modo confuso, è dispensato in misura maggiore, “trabocca”. Quel pezzo di secolo ha un disperato bisogno d’amore.
È la sua protesta a quanto avviene, rovista nella gente a stanare l’anima. La sua vita la usa per combattere gli impacci sociali e ideologici, ridare la libertà. Zivago: “La salvezza non è nella fedeltà delle forme, ma nella liberazione da esse.” Insiste sull’irriducibilità dell’anima alla “prigionia del tempo”. Cristo libera il mondo dalla “morta lettera” della legge. A primeggiare nel suo bagaglio c’è San Francesco e gli è amato compagno nell’ispirazione.
Questo gli dà la forza di scrivere che “l’acero perde le foglie” mentre migliaia di suoi simili sono reclusi nei gulag.
Zivago ha un gineceo abitato dalla moglie Tonia, da Lara, l’amante, e la poesia. Sono le ancelle che lo aiutano a combattere il materialismo arido che dilaga. Il marito di Lara non è d’intralcio. Va alla scuola militare, abbandona moglie e figlia. (Con un treno blindato impersonerà una caricatura di Trotsky.) La poesia abusa della natura, la fa sua complice. “Il ciliegio selvatico! Qua e là si drizzavano le betulle come martiri trafitti dalle frecce delle aguzze foglioline. La neve sotto i raggi del mezzogiorno ingialliva e, nel suo giallore di miele, si depositava, in un dolce strato…. La neve cadeva rapida a cercare il tempo perduto.” La natura magra, restia, “si stiracchia”.
Delusi quanti cercheranno dettagli piccanti. Le modalità degli amplessi sono lasciati liberi ai lettori, nell’assetto e per l’intensità.. Quando Lara, sedicenne, cede all’amante della madre, il maturo Komarovskij, lo sappiamo solo per le sue parole: “Ora lei era donna.” E di lei: “Se la mamma avesse saputo, l’avrebbe uccisa.” E basta. Zivago e Lara hanno consumato? L’autore dirà che il dottore non è ritornato a casa. Zivago deve risolvere la questione morale di Lara, l’autore l’affronta perché è anche un suo caso personale di famiglia… di casa sua. Spinosa. Zivago venera Tonja, una vita insieme, si parlano senza parlare. E allora? Si sente un delinquente.
Farfuglia che Lara è il simbolo della Russia, celebre madre, dei bambini che giocano. “Com’è dolce essere al mondo e amare la vita!” Insomma, è tutto. Dapprima sono i due rami di un sorbo, paragonato alle braccia di Lara, a stringerlo. Deve accontentarsi. “Mio piccolo sorbo, mia cara, sangue del mio sangue!” Siamo alle trasfusioni. Infine l’autore ricorre ad un escamotage, spedisce Tonja e figli esilio, in Francia. Così la colpa diminuisce, il peccato lieve. E si concede un: “Il loro era un grande amore. Nella loro condannata esistenza umana sopravveniva il fremito della passione.”
Pasternak è boicottato dalle autorità, ridotto a far circolare samizdat, ma stranamente è lasciato libero. Per l’assurdo altri vengono arrestati perché divulgano le sue poesie, copiano i suoi versi.
Esiste un emulo di Boris, è Bulgakov, anche lui consumerà anni a scrivere “Il Maestro e Margherita”, ma non sarà altrettanto fortunato, non vedrà il diavolo Woland, Jeshua e Ponzio Pilato balzare fuori dalle pagine.
Giangiacomo Feltrinelli nelle sue librerie insieme al libro mette in vendita balalaike e altri ammennicoli del folclore russo. Una gran fiera del kitsch ma commercialmente redditizia.
Boris Pasternak ha avuto due mogli. Senza separarsi da Zinalda, la seconda, inizia una relazione con Olga Ivinskaja. Olga sarà la sua Lara per i dieci anni di composizione di Zivago e per questo sconterà anni di gulag. Il forte legame si interromperà con la morte di lui nel 1960. La Ivinskaja ha raccontato la sua vita con Pasternak nel libro “Prigioniero del tempo”.
Al funerale di Pasternak tante persone ma anche tanti, forse più, alberi. “La folla dei tronchi di pino… e come fantasmi si riversano…” Il drappello compie un mesto pellegrinaggio con la bara aperta. Quel volto che sembra scolpito ed emerge severo è il loro trofeo. Inalberano con orgoglio lui, il loro essere. Mormorano il suo viatico: “Mia sorella, la vita.” Un monito che diventa un’invocazione accorata: “Storia lasciaci vivere!”.