
William S. Burroughs, riconosciuto maestro dell’arte del cut-up – tecnica appresa dall’amico Brion Gysin – si distingue nel panorama letterario per una produzione di romanzi dalla complessa interpretazione, a cominciare dal celebre Pasto nudo (Naked Lunch), il suo capolavoro, reso ancor più iconico dall’adattamento cinematografico firmato da un altro visionario, David Cronenberg. Se le opere narrative di Burroughs richiedono al lettore uno sforzo non indifferente, proprio a causa dell’uso del cut-up – procedimento che consiste nel ritagliare parole o intere frasi provenienti da fonti disparate per poi riassemblarle generando significati nuovi e inaspettati – la raccolta di articoli e saggi La calcolatrice meccanica, pubblicata da Adelphi, rappresenta un’occasione preziosa per penetrare nel laboratorio creativo dello scrittore. Attraverso le sue riflessioni, il lettore può comprendere le motivazioni che lo spinsero a sperimentare questa tecnica e approfondire i suoi interessi filosofici, letterari, nonché scoprire dettagli inediti della sua formazione umana e artistica.
Cresciuto nell’America del secondo dopoguerra, un contesto chiuso se non addirittura claustrofobico, Burroughs avvertì sin da giovane la necessità di sottrarsi al soffocante puritanesimo che permeava la società. Emblematica, a tal proposito, la sua infelice esperienza negli scout, dove persino il tempo trascorso in bagno veniva cronometrato. La scrittura si configurò dunque come un atto di evasione, sebbene agli esordi lo scrittore si cimentasse in una narrativa di stampo tradizionale. Tuttavia, il peso della morale borghese continuò a gravare su di lui, come testimonia un episodio raccontato in uno dei primi articoli de La calcolatrice meccanica, in cui confessa di essersi sentito “in colpa” per essersi masturbato “due volte al giorno” durante un viaggio a Santa Fe.
Di particolare interesse risultano le pagine dedicate ai gusti letterari dell’autore. Tra i riferimenti spicca Ernest Hemingway, di cui Burroughs apprezza in modo curioso uno scritto minore, Le nevi del Kilimangiaro, ritenendolo “senza dubbio il migliore, se non l’unico vero scritto” dell’autore di Addio alle armi, in quanto rappresenta, a suo avviso, uno dei migliori racconti in lingua inglese sulla morte, o meglio, come precisa lo stesso Burroughs, “sul fetore della morte”. Un’opera che egli accosta a finali memorabili come quello dei Morti di James Joyce o de Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, romanzo al quale dedica diverse pagine, elogiandone soprattutto la struttura narrativa e il significato sotteso, pur trovando i dialoghi “legnosi”.
Un focus imprescindibile del volume è riservato alla tecnica del cut-up, di cui Burroughs si servì non solo sulla pagina scritta ma anche attraverso l’uso di registratori a nastro, riprendendo sperimentazioni già adottate dalle avanguardie pittoriche. Per l’autore, il cut-up non è un semplice esercizio di stile, bensì un autentico rito: così come la magia è in grado di far accadere qualcosa, allo stesso modo la scrittura si configura come un’azione che produce effetti concreti. Ciò che conferisce valore a questa tecnica, sottraendola all’accusa di essere un mero artificio, è, paradossalmente, la sua non casualità. Le frasi ottenute dal “taglia e cuci” – sia su carta sia su nastro magnetico – possono apparire prive di senso a un primo sguardo, ma un esame attento rivela spesso messaggi coerenti, talvolta assimilabili a vere e proprie voci. Nel caso delle registrazioni su nastro, Burroughs paragona il fenomeno a una sorta di seduta spiritica elettronica.
Per avvalorare le sue teorie, lo scrittore cita gli esperimenti del romanziere e filosofo lettone Konstantīns Raudive, pioniere della psicofonia insieme a Friedrich Jürgenson. Raudive ipotizzava tre possibili spiegazioni per le voci che si imprimevano inaspettatamente sui nastri magnetici: la prima le attribuiva all’energia elettromagnetica generata dall’inconscio dei ricercatori o delle persone a loro collegate; la seconda le considerava di origine extraterrestre; la terza le riteneva provenienti dai defunti. Burroughs propende per la prima teoria, secondo cui tali fenomeni sarebbero la riproduzione di registrazioni immagazzinate nella memoria inconscia degli sperimentatori. Questa prospettiva, secondo l’autore, mette in discussione il dogma psichiatrico che considera le voci uditive come sintomi di una mente malata, come nel caso della schizofrenia o di altre psicosi.
Il tema della telepatia emerge così come uno degli argomenti più affascinanti per Burroughs. Persino Freud, sebbene con riluttanza, arrivò ad ammetterne l’esistenza in tarda età, avendo riscontrato numerosi casi di comunicazione telepatica nella sua pratica clinica. Un ruolo cruciale nella generazione delle voci e nella trasmissione telepatica è assegnato all’inconscio, il cui funzionamento trova una spiegazione nella teoria avanzata da Julian Jaynes nel celebre saggio Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Secondo Jaynes, l’inconscio risiederebbe nell’emisfero cerebrale non dominante e la nascita della coscienza, così come la intendiamo oggi, sarebbe un fenomeno relativamente recente, verificatosi tra il 1000 e l’800 a.C. Prima di allora, l’uomo non possedeva un “io” autonomo, ma obbediva alla Voce di Dio, proveniente dall’emisfero cerebrale non dominante, senza porsi domande. Era dunque privo di una coscienza nel senso moderno del termine, guidato esclusivamente da ciò che Freud avrebbe definito il super-io e dalle pulsioni dell’es. Jaynes supporta questa teoria con prove cliniche tratte da casi di lesioni cerebrali e da esperimenti di stimolazione elettrica dell’emisfero non dominante, che inducevano soggetti sani a udire voci.
L’emisfero non dominante, tuttavia, non è soltanto una fonte di sintomi irrazionali, ma svolge funzioni essenziali, come la risoluzione di problemi spaziali, che diventano ardui da affrontare quando tale area del cervello risulta danneggiata. La tesi di Jaynes, secondo cui la coscienza non esisteva prima del 1000 a.C., solleva inevitabilmente una questione cruciale: come definire la coscienza stessa? Ed è proprio su questa soglia del mistero che Burroughs ci congeda, lasciandoci con una sentenza emblematica che denuncia chiaramente una situazione limite: “Possiamo dire che la coscienza è quell’istanza che, nel tentativo di definire se stessa, cadrebbe nel paradosso del righello che misura se stesso”.
*La calcolatrice meccanica, di William S. Burroughs. Introduzione di James Grauerholz, traduzione di Andrew Tanzi (Adelphi. – 2024: pagg. 305 – euro 24,00)