
“Babushka mia, quando c’erano loro sì, che i treni arrivavano in orario…” – o forse non proprio in orario, ma almeno prima o poi arrivavano a destinazione, anche se la destinazione non è sempre quella che ci si aspetta. Rivoluzione dei binari, prevedibilmente paralleli e metallici, ben distanti dal sentiero che si perde nel mistico “Far East” del bel romanzo dei coniugi Peské edito da Adelphi, pur risalente a solo 15 anni prima del “Poema Ferroviario” di Venedikt Erofeev, recentemente ristampato da Quodlibet. Ma chi sono “loro”, questi strenui garanti dell’ordine e della decenza pubblica? Curiosamente, un indizio in tal senso lo fornisce il sopracitato romanzo, la cui prima sezione, dedicata allo zar Alessandro I, si intitola “L’angelo”. Non certo gli esponenti di qualche famigerato governo terreno, dunque, bensì gli angeli, che vegliano sui poeti vagabondi sulla tratta Mosca-Petuskì proprio come i Damiel e Cassiel del capolavoro di Wenders, “Wings of Desire”, vegliano sui berlinesi – o forse non proprio come Damiel e Cassiel, perché questi ultimi non redarguivano nessuno per le troppe parolacce, a differenza dei curiosi angeli beat, ma al contempo russi, russissimi, dello scrittore russo. Non è un caso che la traduzione del volumetto in questione sia opera di Paolo Nori, che, al netto della tendenza, a volte un po’ fuori controllo, a “norizzare” tutto, ha il merito di disseppellire e portare al grande pubblico italiano alcuni “fossili inutili” (così s’intitola, suggestivamente, la selezione dei taccuini di appunti di Erofeev pubblicata in Russia una ventina d’anni fa) degli autori più fuori dagli schemi e, al contempo, esemplificativi della letteratura russa – si pensi, tra gli altri, al poeta Chlebnikov e a Daniil Charms -, rispondendo, oltre che a un impulso suo, a un auspicio dello stesso Erofeev: quello di non essere utile, bensì urgente.
E d’altra parte, quanto al turpiloquio, che in origine occupava un intero capitolo del libro, poi censurato, si giustifica il protagonista, alter ego dell’autore: “Eh, giudicate voi stessi, come si fa a non dirle? Io, di questa enorme sciocchezza che è la vita non ne posso talmente più, che da quel giorno tutto è un ciclone”, dove ciclone e “inciclonato” sono le parole in codice per la sbronza. Ma non di sola coprolalia, “angeli necessari” (per dirla con il titolo di un saggio di Cacciari) e sbronze di vodka e d’ideologia vive l’uomo russo, pur essendo “Mosca-Petuskì” – anche – un affascinante ed esaustivo breviario di mixology di fortuna e una riflessione sulla piaga dell’alcolismo nell’URSS, bensì di dolore, dolore, dolore: “Impara ad affliggerti, ché di godersela anche i coglioni son capaci!”. Un pastiche confusionario, per certi versi, come confusionaria era la situazione politica tardo-sovietica, che covava sotto un apparente ordine, e come confusionaria può risultare, più in generale, l’anima russa, anche agli occhi dei suoi stessi “portatori sani”: “Convieni, Venička, su questo, almeno, che la tua anima è più capiente del tuo cervello”, e “Bisogna rispettare, lo ripeto, le tenebre dell’anima altrui, bisogna guardarci dentro anche se dentro non c’è niente, anche se dentro c’è della robaccia, è lo stesso: guarda e rispetta, guarda e non sputare…”.
Un decalogo, anzi, monologo, come lo è quello interiore del protagonista, di tolleranza del tutto scevro di politically correct, quello di Erofeev, e, per contro, pieno di cuore, perché “Io vi capisco, sì. Io posso capire tutto, se voglio perdonare. Io ho un’anima che è come la pancia del cavallo di Troia, ci sta dentro molta roba”, e “Io, se voglio capire, trovo posto per tutti. Io non ho una testa, ho una casa di tolleranza”. Altro che legge Merlin…