
Colli ha sostenuto che il Simposio di Platone é testo sul quale aleggia, prepotente, il “fiore della gioventù”, nel quadro di una visione della vita protesa alla ricerca dell’ “intero” attraverso la singolarità corporale. A ricordarlo è Davide Susanetti, grecista dell’Università di Padova, nel suo ultimo libro, Quei discorsi d’amore. Leggendo il Simposio di Platone, nelle librerie per Carocci editore (pp. 183, euro 20,00). Non si tratta, sic et simpliciter, di un volume mirato alla mera ricostruzione storico-filologica di un testo capitale del pensiero europeo, ma di uno scritto cruciale. Le sue pagine pongono il lettore al cospetto del quesito che già fu di Eliot: è possibile: «re- incantare l’orizzonte di una terra desolata?» (p. 8), di un mondo, quello post-moderno, in cui si pensa, per dirla con Badiou, dalla fine? Susanetti, se abbiamo ben inteso, risponde affermativamente alla domanda. È la parresia, il bisogno di affermare il vero, in una dinamica esistenziale animata da nóstos, a consentirci il confronto, qui e ora, con un desiderio assoluto, atto a scioglierci dai condizionamenti dell’Io cosale, che ci fa pervenire all’intero, all’identità con l’origine che da sempre siamo.
Lungo tale iter, il Simposio è viatico essenziale. La prosa di Susanetti è “viva”, fluente, mirata, come quella dei dialoghi platonici, a una teatrale messa in scena della “verità”. Da essa si evince che il principio, nella vita, é intrecciato all’ “errore”. La modalità scrittoria del grecista è “parola” che dice la: «ripetibile irripetibilità» (p. 11) dell’origine, del principio. Lo attesta la sua esegesi del dialogo, compiuta e organica. Da essa si deduce che, nell’autore, la competenza filologica non é mai disgiunta da un approccio empatico nei confronti delle tematiche trattate. L’ermeneutica di Susanetti è autenticamente filo-sofica, dice l’ “unizione” di particolare e universale che: «si danno insieme, trasformandosi l’uno nell’altro» (p. 30). La lettura muove dal prologo del Simposio, inteso quale rinvio ad un “prima” apparentemente perso: «Era il 416 e Agatone […] si era aggiudicato il primo posto alla festa delle Grandi Dionisie» (p. 14). Il poeta tragico invitò i comites ad un simposio, presso la propria abitazione. Il 416 è data di rilievo: soglia che separa un “prima” e un “poi” nelle vite dei convitati, aristocratici che presto sarebbero stati travolti dagli eventi successivi alla conquista ellenica della Sicilia. Socrate si reca verso casa di Agatone in compagnia di Aristodemo, ma poco prima di giungervi, si appartò com’era sua consuetudine. Per andare a “caccia” dell’ arché è necessario che l’anima “si raccolga”, si isoli dal corpo e dal mondo.
«Tó sophón […] è qualcosa che ognuno deve raggiungere da sé in quel medesimo stato di raccolta concentrazione» (p. 27). Socrate è uomo “eccentrico”, è atopos. Il suo comportamento allude a un “altrove” che, in realtà, è sempre in noi. Superando la soglia d’ingresso della magione cui è stato invitato, il filosofo testimonia simbolicamente la possibilità di aver accesso al principio. Susanetti ricostruisce con maestria e forza persuasiva, lo sviluppo del dibattito tra i convitati, rilevandone il tratto rituale: «a cui partecipano gli dèi con la loro […] potenza» (p. 31). La capacità evocativa dall’autore, è prossima a quella del “cosmico monacense” Alfred Schuler nella sua presentazione della Caena romana. Susanetti afferma, infatti, che nel sacro banchetto: «Mentre i doni congiunti di Dioniso e delle Muse esercitano l’incanto che è loro […] un’altra forza si rende presente e opera tra i simposiasti: la potenza del dio Eros» (p. 33). In tema, Fedro, che prese per primo la parola, si richiamò a Esiodo. Questi, aveva concesso a Eros la possibilità di determinare il transito dal caos primigenio alla genesi del cosmo. Un Eros omerico, avente a cuore il mondo eroico e l’areté, sigillo della “perfezione” che si conquista nell’azione, in una: «sfida sempre rinnovata con la morte» (p. 43).
Pausania intrattenne i convitati sulla duplicità del reale, sostenendo la necessità di cogliere, in tale relatività sofistica, ciò che è “corretto”. Neppure Eros è “uno”, si accompagna ad Afrodite. La stessa genealogia della dea è duplice: a fianco di Afrodite “Urania” vi è sempre Afrodite “Pandemia”, dea anagogica e catagogica in uno. Lo spudaios guarda alla prima. L’Eros celeste: «si scioglie nel nitore dell’ areté e della sophía» (p. 56). Il medico Erissimaco, di contro, rileva la presenza di Eros in tutto ciò che vive, non solo negli uomini. Da qui la duplicità di “salute” e “malattia”. Nei corpi va assecondato ciò che è “buono”, equilibrante, in termini empedoclei e nel senso della sacra medicina di Asclepio, e allontanato ciò che “divide”, “dissolve”: «Metabolé è “ingenerar amore” ove è conflitto» (p. 63), a seconda delle diverse circostanze, servendosi di musiche appropriate, come aveva insegnato Damone. A questi ribatté Aristofane che spiegò l’attrazione erotica, etero e omosessuale, rammemorando il mito dell’Androgine e della sua divisione perpetrata da Zeus. Da allora, il magnetismo erotico induce il superamento dei limiti di un presente segnato da: «una profonda disforia e da una mancanza» (p. 71). Eros è potenza unitiva: i bei corpi suscitano il desiderio della completezza. Al contrario, dall’intervento di Agatone si evince la verità tragica di Eros. Questi esercita: «una signoria straziata e straziante, […] un imperio universale che si intreccia immancabilmente alle derive della […] distruzione» (p. 85).
La via alla liberazione erotica, al risveglio, emerge, in piena chiarezza, solo nel discorso di Socrate, che riassume i colloqui da questi intrattenuti con Diotima. Si tratta del sapere misterico-iniziatico che richiede un processo di purificazione. Eros è demone posto nel metaxú, tra umano e divino, è traghettatore nel tempo, in chronos, in un “attimo immenso”, di aion. La nascita e il parto che esso propizia hanno a che fare, tanto con il corpo, quanto con l’anima. La verità dell’amore sta nel perseguire l’a-mors, il senza-morte, che non è dei corpi ma del principio che li anima. Per giungere alla visione finale è necessario attenersi a una prassi ritualizzata, in cui i “discorsi” aprono il processo ma non lo chiudono. Si tratta di un “contatto”, di una: «visione senza contenuto, senza immagine» (p. 107). L’origine è non-ente, non concettualizzabile dal lógos. La parola e la scrittura possono, al massimo, suscitare nostalgia e, attraverso l’anamnesi, sospingere lungo la Via. Questo il senso del Simposio e del libro di Susanetti.
La Via è: «Possibilità di una seconda nascita in cui si sente e si vive che l’oltre non è un altrove e in un altro tempo, ma è il medesimo del qui e dell’ora nell’intensità di una dimensione interna ad esso» (pp. 108-109). L’origine e la tradizione non sono passato, ma sono il sempre della vita, la pratica erotico-iniziatica, lo mostra in tutta evidenza. Susanetti, con queste pagine, si pone in sequela di coloro che, pur nella mestizia del presente, hanno mostrato la possibilità del tradere, la possibilità di guardare il mondo con sguardo assoluto: il suo lascito è un possibile nuovo incantesimo della vita.