
Non entro nel merito delle scelte del televoto e delle giurie. Non ho sentito tutte le canzoni e non posso esprimere un giudizio. Mi limito a osservare che Sanremo ha da oltre vent’anni due difetti capitali che sono anche delle Olimpiadi: il gigantismo e la politicizzazione.
All’origine non era così. Il Festival era una kermesse che durava solo tre giorni, con tempi contenuti, in cui ogni canzone era interpretata da due diversi cantanti: poi il pubblico avrebbe deciso, acquistando i 45 giri, chi fosse l’interprete migliore. Tanto per fare un esempio nel 1959 Modugno e Dorelli cantarono entrambi “Piove”, o “Ciao ciao bambina” che dir si voglia. Vinsero in tandem, ma la fama della canzone è legata a Modugno, la cui interpretazione era più convincente di quella del pur bravissimo Jonny.
Eravamo in un’era pre-rapper, in cui per essere cantanti bisognava saper cantare. Non contavano il look, le stravaganze dell’abbigliamento, le inclinazioni sessuali, gli ammiccamenti politici. Poi vennero il Sessantotto e l’anno dopo l’autunno caldo; arrivarono i “complessi” e i cantautori impegnati. Ma era tutta gente che sapeva cantare e anche i testi erano apprezzabili. Ricordo che in classe con la professoressa di filosofia, comunista impegnata che però mi rispettava, si discuteva serenamente di “Chi non lavora non fa l’amore” di Celentano o di “Partirà, la nave partirà”, di Sergio Endrigo.
Con gli anni Settanta il festival declinò, nel clima di austerity anche musicale che caratterizzò il peggior decennio della nostra vita. Nello stesso savonaroliano rogo delle vanità che portò alla soppressione di Canzonissima, altra grande saga musicale dell’Italia del Miracolo, e del “consumistico” Carosello, del Festival fu trasmessa solo una serata. Dietro tali scelte, all’apparenza pedagogiche, si nascondeva il disegno di favorire a beneficio delle multinazionali del disco la penetrazione delle canzoni in lingua straniera: un festival della canzone italiana, che valorizzava i nostri prodotti, costituiva un intralcio al dilagare dell’anglofonia a 45 o a 33 giri. Prima, il pubblico nazionale voleva poter apprezzare oltre alla musica le parole e i cantanti stranieri per vendere dovevano cantare in italiano; altrimenti le loro canzoni venivano interpretate da interpreti italiani spesso bravi come o più di loro, in versioni più o meno libere. Penso al grande e sottovalutato Jimmy Fontana, che con il titolo “La nostra favola” propose al nostro pubblico Delilah di Tom Jones.
Con gli anni Ottanta la Rai si riappropriò del festival, di cui a sua volta si riappropriò la politica, con i risultati che sappiamo. Aspiranti suicidi salvati in diretta, disoccupati che protestano, comizi travestiti da satira, e poi uomini che si baciano, tatuaggi ripugnanti, cantanti che coprono con le loro mises e le loro provocazioni il fatto di non saper cantare. A volte penso che se il festival fosse trasmesso solo per radio sarebbe paradossalmente un bene: si voterebbe la voce, non il look. Nel frattempo, permettetemi di ripetere il mio grido di battaglia: “Aridatece Nunzio Filogamo!”