
Da non poco tempo, pensiamo di non essere i soli a ravvisare un patente abuso, segnatamente a causa di una diffusione “pandemica” – questa sì reale e non solo frutto di manipolazioni mediatiche – del termine “Geopolitica”, specie da parte di opinionisti più o meno competenti, i quali si rivolgono al pubblico della Rete. Sia chiaro, non che ciò mostratoci dalla cosiddetta TV generalista sia meglio; anzi, riteniamo che le informazioni da essa veicolate non siano semplicemente il frutto di una scarsa conoscenza della materia in questione, come avviene nel caso di Internet, bensì di autentiche menzogne, puntualmente propagandate senza contraddittorio.
Tracciando i contorni della disciplina
Un utile strumento per orientarsi al meglio in questo particolare campo di ricerca è l’agile, ma assai esaustivo come punto di partenza per approfondire la tematica: Prospettive geopolitiche (2019) di Claudio Mutti. Infatti, tale volume fornisce le migliori basi per addentrarsi in quella che sogliamo definire una esegesi “accademica” della Geopolitica, contrapposta a una, assai più diffusa, dal taglio meramente cronachistico/giornalistico e fondata quasi esclusivamente sul racconto dei fatti – quando si ha la fortuna che questi vengano riferiti in modo veritiero – con pressoché alcun riferimento alle varie teorie elaborate dagli studiosi di cui parleremo in questo scritto.

Tra tutti, spicca il Professore-Generale Karl Ernst Haushofer (1869 – 1946), fondatore della Geopolitica Europa, con la sua idea sul significato spaziale delle decisioni. Egli, assieme al britannico Halford John Mackinder (1861 – 1947), è da considerarsi uno dei padri della cosiddetta teoria “continentalista” o “binaria” (8), la quale si attesta come quella cardine nella Geopolitica “classica”. Tuttavia, Mackinder e Haushofer sono alfieri di polarità totalmente antagoniste: il tedesco dalla parte della tellurocrazia, laddove l’anglosassone, per ovvi motivi nazionali, si interessò al concetto di talassocrazia. Questo ci riporta alla infausta attualità (il conflitto in Ucraina), con le mistificazioni diffuse dalle “potenze del mare”, che in verità Haushofer chiamava, rettamente da un punto di vista storico, “pirati”, le quali tendono in ogni modo a minare quelle della terra, poiché per Mackinder al fine di giungere al predominio delle potenze marittime: “[…] occorre interporre fra la Germania e la Russia, come un diaframma, un’Europa centro-orientale garantita dalla Società delle Nazioni” (9). Speriamo che ci verrà scusato il linguaggio spicciolo, ma più chiaro di così!
Chi scrive, essendo di Scuola Haushoferiana, è profondamente convinto che la Geopolitica studi i fenomeni da una prospettiva costantemente “spaziale”, ossia geografica. Ragion per cui, sin dal sorgere delle prime civiltà evolute, naturalmente inclini alla espansione, si venne a creare la questione, mutuando le categorie care allo studioso bavarese, del Großraum (“Grande Spazio”), successivamente meglio elaborata dal giurista costituzionalista e politologo, anche egli tedesco, Carl Schmitt (1888 – 1985); la suddetta concezione giornalistica della disciplina parlerebbe in questo precipuo caso di “sfere di influenza”. Esempio storicamente significativo, quanto esplicativo, è la celebre “Dottrina Monroe” del 1823 (da James Monroe [1758 – 1831], quinto Presidente Usa), che prevedeva un controllo, occultato o manifesto poco importava, degli statunitensi su tutto il Centro e il Sud America; le ultime roboanti affermazioni sul riprendersi Panama da parte di Donald John Trump al suo ritorno alla Casa Bianca altro non sono che la riprova che tale desiderio di dominio non è mai cessato e che le teorie messe in essere in passato da Monroe sono tuttora vigenti. D’altronde, Schmitt, ci ricorda Mutti, parlò delle tesi geopolitiche come dei: “concetti teologici secolarizzati”.
Nel volume possiamo notare il lavoro che l’autore svolse quale insegnante di lingue classiche nei licei: il libro ricorre sovente a termini latini e greci. Inoltre, a differenza di molti altri studiosi del Pensiero Tradizionale, Mutti, e questo non può farci altro che piacere, mostra decisamente più interesse e rispetto per il Cristianesimo. A tal proposito e per dovere di sincerità, non possiamo tacere riguardo le derive neopagane di molti esegeti di questa corrente filosofica massimamente per quanto attiene alla figura di Julius Evola (1898 – 1974); posizione che noi, proprio in virtù di studiosi di questo pensatore, sentiamo di rigettare con forza. Chiaramente non neghiamo affatto che numerosi scritti evoliani sposino visioni apertamente neopagane; quello che intendiamo dire è che preferiamo concentrarci su opere che giudichiamo di maggior sobrietà speculativa partorite dal filosofo italiano.
Il mondo anglosassone, l’eterno nemico?
Chiusa questa minima, ma che sentivamo opportuno esprimere, osservazione polemica, torniamo al lavoro di Mutti, nel quale si ricorda la genesi del termine “Anglosfera”; ossia quel blocco di Nazioni unito dalla lingua e da una percezione della società di marca protestante, che rappresenta da quasi duecento anni la causa dei principali squilibri nei rapporti tra Popoli. La suddetta parola pare sia stata introdotta nel linguaggio specialistico abbastanza di recente; precisamente nel 2000 dall’americano James C. Bennett, nello scritto: The Anglosphere Challenge. Why the English-Speaking Nations Will Lead the Way in the Twenty-First Century (Lanham [MD], Rowman & Littlefield Publishers, 2004). La verità è che il concetto di “Anglosfera”, anche se non utilizzato e conosciuto come oggi, è presente nei ragionamenti dei geopolitologi da lungo tempo, addirittura prima che si parlasse di Globalizzazione. Ad esempio, ancora Schmitt aveva compreso che la egemonia anglosassone avrebbe soppresso ogni distinzione e pluralità spaziale, unificando il mondo per mezzo della tecnica e di una proditoria forma di economia transnazionale. A questa nefasta prospettiva per l’Umanità, divenuta uniforme e indifferenziata, egli contrappose i concetti di Ordnung (“ordine”) e Ortung (“luogo”): non si può raggiungere un sano ordinamento globale senza una precisa appartenenza geografica.
La unione dei Popoli di lingua inglese, contrassegnata – sempre secondo Schmitt – da “un marchio anticristico”, si è rivelata agli occhi della millenaria storia occidentale quale una “sinistra parodia dell’Impero” (19). Del resto, non è peregrino ritenere tutta la vicenda del colonialismo britannico prima e dell’imperialismo mercificato e culturale statunitense poi come una grottesca pulsione a scimmiottare quella che fu la grandezza di Roma. Questo è avvenuto tramite il vettore marino, come ebbe modo di sostenere il contrammiraglio americano Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), egemonizzando la Germania e il Giappone, così da contenere il blocco russo-cinese, e di conseguenza dominare il mondo (10). Vorremmo nuovamente sottolineare che questa non è stata solo la politica estera USA del passato, bensì è quella di oggi; non è cambiata per nulla.
Riagganciandoci al summenzionato legame intellettuale di Mutti con la Classicità, lui ripropone la prospettiva di Omero su una forma di dominio basato sull’acqua, quella che conosciamo per l’appunto come talassocrazia: “Il mare, massa fluida ed informe, variabile, priva di determinazioni, è l’immagine della sostanza universale […]; è il simbolo di quel divenire che è mutevolezza, corruttibilità, illusione” (23). Invero, in questa riflessione non è difficile individuare quell’Ovest oscuro stigmatizzato nella “Geografia Sacra” di Guénon (cfr. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975, p. 96).
La lingua è Potere
Forse sarà dovuto a un nostro personale interesse di ricerca, ma il capitolo del libro che stimiamo di maggior valore, nonché originalità, è quello intitolato: La geopolitica delle lingue (35-45), ove si affronta con acume il ruolo del fattore linguistico nel rapporto tra lo spazio fisico e quello politico, a partire dalla influenza esercitata da Roma tramite il latino. Condivisibile è altresì il rimarcare come la grande rilevanza e diffusione del francese sia stato un episodio storico per alcuni versi peculiare, se si considera il numero relativamente basso di locutori (38).
Un plauso va poi a Mutti quando denuncia l’imbarazzante paradosso linguistico che connota la Unione Europea, e lo fa riprendendo le parole di Alain de Benoist: “l’inglese avanza a detrimento del francese perché gli Stati Uniti attualmente restano più potenti di quanto non lo siano i paesi europei, i quali accettano che sia consacrata come lingua internazionale una lingua che non appartiene a nessun paese dell’Europa continentale” (Alain de Benoist, Non à l’hégémonie de l’anglais d’aéroport, voxnr.com, 27 maggio 2013). In base a tali osservazioni, cogliamo la occasione per evidenziare che tutto ciò va a esclusivo vantaggio statunitense e non britannico, giacché l’inglese della “Perfida Albione” è da decenni ritenuto vetusto e classista, un mero orpello di una Nazione che fu potente e che è dalla Seconda Guerra Mondiale un biasimevole, se si considera il suo notevole passato, vassallo degli USA. Su questo argomento, risulta decisamente chiarificatore il testo di Nicholas Ostler: The Last Lingua Franca. English Until the Return of Babel (London, Allen Lane, 2010).
Sia come sia, l’autore fa bene a riproporre le parole espresse da Sir Winston Churchill (1874 – 1965) il 6 settembre 1943, quando l’allora Primo Ministro Britannico ebbe modo di dichiarare schiettamente: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (41). Tale asserzione è una cristallina epitome di una concezione prepotente della diffusione della lingua/cultura, tipica degli anglosassoni, e al tempo stesso una inequivocabile pulsione colonialista.
Prospettive probabilmente inconciliabili
Considerando il profilo di Mutti, non sorprende il suo soffermarsi sulla genesi del termine “Eurasia” (venne introdotto dal matematico e cartografo germanico Karl Gustav Reuschle [1812 – 1875] nel 1858), enucleando le caratteristiche salienti delle due maggiori e raffinate scuole geopolitiche, quella tedesca e quella russa (47-48). Per la prima, tale area è identificabile nelle terre emerse circondate dal Mar Artico e dal Mar Mediterraneo e dagli Oceani Atlantico, Indiano e Pacifico. Ben diversa è la interpretazione della seconda, la quale riprende gli assunti del pensatore panslavista Nikolaj Jakovlevič Danilevskij (1822 – 1885), e successivamente perfezionati nel quadro di una entità economica, etnica, e geografica a sé stante sia dall’Asia che dall’Europa propriamente dette. Ci permettiamo di aggiungere che sta nella mancata comprensione di tale specificità la causa primaria di quella diffidenza verso l’Eurasia che sfocia sovente in ostilità, poiché non parliamo di un mero punto centrale di passaggio tra due poli, bensì di un terzo polo, con tutte le sue connotazioni e legittime rivendicazioni. Pertanto, accogliamo con vivo apprezzamento la valorizzazione di Mutti del lascito geopolitico di Carlo Terracciano (1948 – 2005, cfr. Carlo Terracciano, ‘Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica «orizzontale»’, Eurasia, 2, aprile-giugno 2005, pp. 181-197), specialmente sulla urgenza di una solida e sistematica integrazione (economica, politica e militare) tra Europa e Russia (52-53). In caso contrario, spiegò Terracciano, il Vecchio Continente sarà usato dagli americani: “come una pistola puntata su Mosca”, e la guerra russo-ucraina in corso conferma in modo inconfutabile la correttezza di tali previsioni.
Verso la conclusione, il volume si avvicina a tematiche contemporanee, rievocando il “pericolo giallo” (81-82) paventato da Mackinder parecchi anni or sono, durante una relazione che lesse alla Royal Geographical Society di Londra il 25 gennaio 1904, nella quale espresse il timore che una Cina meglio organizzata di quella del suo tempo avrebbe in futuro scalzato la Russia Zarista dal ruolo di Paese egemone della “regione-perno” (la sua nota definizione in inglese è per la precisione: Pivot Area), aprendo alle tellurocrazie un fronte oceanico che sarebbe potuto risultare fatale per gli anglosassoni. Non esitiamo a definire lo scritto di Mackinder, per quanto in opposizione al nostro personalissimo orientamento, tra i nodali contributi teoretici nella evoluzione della Geopolitica, ed è stato saggiamente pubblicato in una versione italiana nel numero 2 (2018, 29-50) di Eurasia, rivista della quale Mutti è fondatore e Direttore.
La valutazione di un testo come Prospettive geopolitiche non può che essere sostanzialmente positiva: in non molte pagine si sono fornite tutte le coordinate necessarie per avvicinarsi e comprendere questa articolata disciplina; di quello che è doveroso sapere non manca niente. Abbiamo trovato in aggiunta di forte suggestione il ricondurre il tutto a un qualcosa di “atavico”, a un conflitto eterno tra terra e mare, già presente nel mito greco con la contesa tra Atena e Poseidone (23), per il dominio spirituale di Atene, così da essere venerati nella città-Stato quale prima tra le Divinità dell’Olimpo. Tale dualismo spaziale forse rimarrà eternamente irrisolto, oppure si arriverà alla definitiva sconfitta di una delle due entità. Per ora, è lecito accontentarsi di accorgersi che il pianeta è diviso in fazioni antitetiche e, in fin dei conti, il ragionamento geopolitico serve a questo, a sviluppare “una lettura puramente geografica dei problemi”, come ci ha insegnato Karl Haushofer.
Claudio Mutti, Prospettive geopolitiche, Genova, Effepi, 2019
Riccardo Rosati