Primato di ascolti del Festival di Sanremo di martedì 11 e 65.3% di share, superando persino il Festival 2024 di Amadeus. Ritmo serrato, ma inizio freddo, corretto dalla simpatia di Antonella Clerici, affiancata da Carlo Conti, impeccabile. Invece Gerry Scotti non è a suo agio.
E’ il Festival, quindi vedi alla voce: amore. Dunque le canzoni si somigliano. Pochi osano melodie o testi di rottura. Un cenno, un rigo appena non si negano: Giorgia, fresca come nel 1995; Achille Lauro, struggente; Simone Cristicchi, drammatico/delicato; Lucio Corsi, su fragilità e normalità; Brunori Sas, sulla paternità. Coinvolge col ritmo Rkomi; molto piacevole Bresh; Willie Peyote critica il pensiero dominante; Fedez mette grinta e dolore sulla depressione; Tony Effe fa pensare a Franco Califano; Olly convince con Polvere; Gabbani delude con Viva la Vita.
Lato femminilità, Gaia punta su un amore simile a quello di Fotoromanza; Rose Villain – “forse non sai che per te ho pianto” – non è corrisposta e soffre; anche Noemi racconta un dolore; Elodie e Clara si esercitano su un legame distratto; più briosi i Cuoricini dei Coma Cose. Marcella Bella proclama che è “forte, tosta e indipendente”. Forte e tosta però sono sinonimi, ma pazienza: la canzone di rottura della serata è sua.
Sul fronte del pacifismo che “va sempre”, ma non cambia nulla, si impone il prevedibile. Noa, israeliana, e Mira Awad, palestinese, propongono Imagine di John Lennon in ebraico, arabo e inglese. Gli spettatori italiani cosmopoliti capiranno: “Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do / Nothing to kill or die for / and no religion, too”.Versi che ascoltiamo da mezzo secolo, eppure Paesi e religioni, specie quelli cui si alledeva ieri, fanno l’esatto contrario. Del resto Imagine è solo un inno anarchico. Però è il più bell’inno anarchico mai scritto.