I miei vent’anni sono stati ‘funestati’, all’Università, non solo dall’invadente, dogmatico, legnoso marxismo, ma da un bombardamento non genericamente ‘sessantottino’, ma comunista e maoista, centrato su Castro e sulla famigerata Grande Rivoluzione Culturale, la Campagna dei Cento Fiori, il Libretto rosso del Grande Timoniere (1964).
Tanto ammirato quanto allora poco conosciuto in Italia, Mao Zedong (1893-1976) è stato un rivoluzionario, capo del Partito Comunista cinese dal 1943 fino alla morte. Sotto la sua guida il partito vinse la lunga guerra civile e fondò la Repubblica Popolare Cinese, della quale dal ’49 fu presidente. Mi sia permesso un tardivo sfogo contro quello stordimento, il gran ‘rincoglionimento’, da alcuni subito, da altri fervorosamente condiviso, a livello intellettuale, docente; nucleo, peraltro, di future influenti conventicole carrieristiche in media, atenei, finanza…
La Rivoluzione Culturale fu lanciata nel 1966 da Mao: la direzione del quale era posta in discussione per il fallimento della politica ideata e pianificata nel cosiddetto ‘Grande Balzo in Avanti’, un piano economico e sociale per riformare rapidamente la Cina, trasformando il sistema economico, fino ad allora basato sull’agricoltura, in una moderna, industrializzata società collettivizzata. Fra il 1959 e il 1962 ebbe luogo una gravissima carestia che colpì l’intero paese provocando milioni di morti. La cifra ufficiale riconosciuta in Cina è di 14 milioni, ma per gli studiosi dai 20 ai 43 milioni. La ‘Grande Rivoluzione Culturale’ fu usata da Mao per riprendere il comando effettivo del potere, mobilitando i giovani (le ‘Guardie Rosse’) per estromettere chi lo aveva emarginato. Lo scontro tra Mao e i massimi leader era mascherato ideologicamente con la lotta contro ‘il riformismo’ dei suoi oppositori, tra i quali Liu Shaoqi e Deng Xiaoping, per ripristinare l’applicazione ortodossa del pensiero marx-leninista. Con milioni di morti, al solito. Nel ’76 Mao morì e subito la ‘Banda dei Quattro’, sua vedova inclusa, fu arrestata, ponendo fine alla Rivoluzione Culturale. Nel ’78 Deng Xiaoping, nuovo leader supremo avviò il programma Riforme ed Aperture per correggere gli errori dell’esperimento. Nell’81 il PC cinese dichiarò ufficialmente che la Rivoluzione Culturale era ‘responsabile della più grave battuta d’arresto e delle più pesanti perdite subite dal Partito, dal Paese e dal popolo dalla fondazione della Repubblica Popolare’. Influenzati dal ‘Grande Balzo in Avanti’ e dalla Rivoluzione Culturale, gli Khmer Rossi di Pot Pot diedero inizio al terribile ‘genocidio cambogiano’ (1975-’79).
Il Socialismo Reale
‘Il Socialismo Reale’ di Luciano Pellicani (1939-2020), ordinario di Sociologia Politica alla LUISS di Roma, è un conciso e pregnante saggio pubblicato nel Dizionario di Storia Treccani (2011) dopo la fine dell’URSS. Il vangelo socialista, di Bettino Craxi e Pellicani, era comparso su L’Espresso nell’agosto 1978, suscitando scandalo (e future livorose vendette). Craxi tagliava i ponti con i dogmi del marxismo-leninismo e con la tradizione palingetico-rivoluzionaria: schiudeva una via per conciliare il socialismo con il mercato e la società liberale:
“L’espressione Socialismo Reale fu utilizzata per indicare il modello di organizzazione sociale dell’URSS e delle Democrazie Popolari dell’Europa Orientale. I suoi tratti distintivi erano: a) la dittatura monopartitica; b) la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato; c) la pianificazione economica; d) il marxismo-leninismo come ideologia ufficiale. L’idea di fondo, derivata da K. Marx e F. Engels, si basava sul concetto che la missione storica della rivoluzione socialista era quella di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo radendo al suolo il capitalismo e tutto ciò che era ad esso connesso, la proprietà privata, il mercato, lo Stato di diritto, la democrazia parlamentare, la libertà di stampa”.
L’azione del nuovo regime – autodefinitosi ‘Dittatura del Proletariato’ – attivamente materialista ed ateista, fu coerente con i presupposti ideologici in nome dei quali era nato:
“Il primo decreto fu la soppressione della libertà di stampa sulla base per impedire agli sfruttatori e ai reazionari di propalare le loro idee. Il secondo provvedimento fu la soppressione dell’Assemblea costituente, bollata come una ‘fabbrica di chiacchiere’. Il terzo, la messa fuori legge di tutti i partiti, ivi compresi i partiti della sinistra non-bolscevica (socialisti rivoluzionari, menscevichi, anarchici). Poi la lotta al ‘frazionismo’. Infine la statizzazione integrale dei mezzi di produzione e distribuzione (industrie, terra, banche, commercio) e la conseguente eliminazione della proprietà privata e del mercato. Il socialismo, identificato con l’instaurazione del piano unico di produzione e distribuzione sulle macerie della società capitalistico-borghese, diventò una corposa realtà, la prima tappa della prometeica costruzione del regno della libertà, accolta da parte della sinistra europea con grande entusiasmo”.
La realizzazione di un ideale che esigeva il ricorso al ‘terrorismo di Stato’, ricorda Pellicani, mutuato dal Terrore Giacobino e concepito da Lenin come purificazione della Russia attraverso lo sterminio della borghesia. Il Partito bolscevico mobilitò tutte le sue energie per istituzionalizzare una economia a pianificazione centralizzata, nel quale l’intero processo di produzione doveva essere regolato dallo Stato e non dal mercato. Il risultato fu una spaventosa carestia, ma consolidò il monopolio statale della grande industria e del commercio internazionale.
Dopo la II Guerra mondiale e la successiva destalinizzazione del XX Congresso (1956), la ‘glaciazione brezneviana’ post-Kruschev (1964-1980) portò l’economia sovietica sull’orlo del collasso catastrofico. Né valsero a scongiurare la caduta finale i tentativi di riforma compiuti da Gorbačëv. La ‘glasnost΄, cioè la parziale libertà di stampa e di critica concessa dal PCUS, rese di pubblico dominio che c’era solo un modo per arrestare il declino: la fuoriuscita dalla logica della pianificazione centralizzata e l’introduzione dei principi e delle istituzioni del capitalismo, che il marxismo-leninismo aveva demonizzato, imputandogli tutti i mali del mondo. Così, nel giro di pochi anni, si consumò la ‘bancarotta planetaria’ del comunismo. Nel 1989 fu abbattuto il muro di Berlino, cui fece seguito la caduta delle dittature sotto le quali erano vissuti i popoli dell’Europa orientale. Nel 1991 collassava il PCUS e, con esso, il sistema del Socialismo Reale, ponendo alla Guerra Fredda, che per oltre 40 anni aveva diviso il mondo intero in due blocchi di Potenze”.
Collassa il mito della rivoluzione
Collassava pure il mito della rivoluzione, nato in Francia nell’89 e dilagato nel mondo: ‘la rivoluzione palingenetica mutazione della società e della natura umana’. Arduo non collocare le ricostruzioni e riflessioni di Pellicani, come di altri, con quelle distopie delle quali forse la più conosciuta è 1984; accomunata a Il mondo nuovo di Aldous Huxley (che fu insegnante di Orwell), un romanzo di fantascienza del 1932. È il suo testo più famoso. Il libro anticipa temi quali lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione, l’eugenetica e il controllo mentale, usati per forgiare un nuovo modello di società; che compaiono nel I e del II dopoguerra, caratterizzati da un profondo pessimismo, segno di una crisi di valori che colpisce la fiducia nel positivismo e nelle ideologie connesse. La corrente distopica nasce in opposizione ai romanzi utopici classici e trova ampio materiale di osservazione e critica nel tragico Socialismo Reale. La sua fama è dovuta anche all’allegoria politica La fattoria degli animali, una novella allegorica pubblicato del 1945. George Orwell riflette sugli eventi che portarono alla Rivoluzione russa del ’17 e successivamente all’era staliniana dell’Unione Sovietica. L’autore era schierato su posizioni politiche affini al socialismo democratico.
‘CulturaIdentità’ è un’associazione (e rivista mensile) fondata da Edoardo Sylos Labini che ha come scopo la difesa, la promozione e la diffusione dell’identità italiana. Marco Gervasoni, ordinario di Storia Contemporanea all’Università del Molise vi ha pubblicato, nel 2020, ‘Comunismo: quando il falso diventa vero’. Per Gervasoni, ‘sorvegliare e mentire’: un distico che caratterizza il comunismo, come ideologia e come regime. Mentire non significa tanto celare la verità, quanto indicarne un’altra, alternativa:
“Una verità che deve essere intesa in tre forme: empirica, logica e ontologica (vero è ciò che è coerente con il senso metafisico). Il comunismo rappresenta l’esempio più compiuto nella storia di falso che si presenta vero. Dal punto di vista dottrinale è infatti figlio dell’Illuminismo. Secondo la celebre definizione di Paul Ricœur, Marx assieme a Nietzsche e Freud è uno dei tre ‘maestri del sospetto’. Per Marx quello che si presenta come ‘vero’ è solo frutto della costruzione del mondo ideologico della classe dominante. Compito dei comunisti è decostruire la narrazione dominante”.
I problemi si pongono quando il comunismo, da opposizione, diventa governo, regime. Ciò avviene per la prima volta dove la cultura politica marxista s’incontra con un’altra, pure di matrice europea occidentale, ma che aveva attecchito nel populismo russo. Cioè il nichilismo di Sergej Gennadievič Nečaev (1847-1882), seguace del tedesco Max Stirner (1896-1856), per il quale la realtà è solo proiezione della volontà individuale, il mondo esterno una sua costruzione:
“Nonostante la cultura positivista, che pure Lenin e i bolscevichi condividono, nel regime comunista si affermano l’idea e la prassi nichilistica che è il partito a costruire la realtà. Verità sarà solo ciò che viene affermato, deciso e praticato dal Partito comunista. Poiché il Partito coincide con lo Stato, i comunisti si impegnano a costruire una realtà e verità alternative. Da allora, nella propaganda comunista la menzogna diventa ciò che è vero, mentre ciò che è falso dal punto di vista empirico, logico ed ontologico, diventa il vero. Realtà alternativa, fondata sulla menzogna’.
Non voler vedere, non voler sentire
Similmente, Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda di Hitler, ai allineava alla Pravda: ‘Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità’. I seriosi compagnucci arruolati ed i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quelle Democrazie Popolari (e qualche turista ingruppato, come il sottoscritto, in frastornanti quadrimotori Ilyushin ad elica dell’Aeroflot, nel 1975), si trovavano di fronte se non a Paradisi Terrestri ad una sorta di povera Disneyland brezneviana: i più smaliziati talora cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni ci cascava o faceva finta (‘sto coi comunisti perchè lì si scopa’, confessava qualcuno).
Molti dei loro maniacali, sarcastici gerarchi erano cresciuti, convinti, nonostante polizie asfissianti e gulag, di ‘camminare con la storia’, nelle scuole di partito, che alle Frattocchie, condividevano (indossata qualche riserva mentale), i PCI Veltroni, D’Alema, Fassino, Occhetto ecc., con autoreferenziali cossuttiani, ‘miglioristi’ e futuri dissociati post 1989. L’idea di ‘verità’ di Mosca, cioè la logica della menzogna, semmai ‘spostando qualche virgola’, degli ‘strappetti’, dissentendo su repressioni ed invasioni, alla Enrico Berlinguer, il padre del Compromesso Storico nel 1973, dopo la fine di Allende in Cile, e della proposta di Alternativa Democratica, di sinistra, interrotta dalla sua morte repentina nell’84. Quel diffuso catto-sindacal-comunismo consociativo, che ha attraversato le velleità del ‘berlusconismo’. Rappresentazione, se non epitome, del variegato universo di trascorsi comunisti, di aspirazioni umanistico-socialisteggianti, al di là delle sigle, sempre gramscianamente vive, operanti, riverniciate infine di Political Correctness, Cancel o Woke Culture strampalate…
Il mio mondo è rimasto quello del ‘berlusconiano’ de Il libro nero del Comunismo. Crimini, terrore, repressioni, Milano (Mondadori, 1998), traduzione del testo pubblicato da Laffont, a Parigi, l’anno precedente? Forse, e non ho difficoltà ad ammetterlo. Circa 85 milioni di morti, a quel tempo, oggi assai aumentato, non è poca cosa, neppur tirando in ballo le bombe nucleari. Così come con Nolte ed altri ho sempre condiviso l’idea che senza bolscevismo comunista non ci sarebbe neppur stato il nazional-socialismo germanico (greve razzismo a parte) che nei metodi e pressi di regime fu ammiratore ed imitatore, fino ad un certo punto in scala minore, di quanto avveniva nella Russia marx-lenin-staliniana, non solo alla Lubianka. Pure sarebbe stato migliore il ‘mussolinismo’ (fondamenti ideologici a parte), forse non sarebbe terminato come finì, con l’Italia al disastro, damnatio memoriae per capi, gregari, simboli, opere…
O, chissà, sono rimasto al 1984, il famoso romanzo distopico di George Orwell, apparso l’8 giugno ’49, incentrato sulle conseguenze del totalitarismo, i meccanismi di controllo del pensiero, la sorveglianza di massa, la dura repressione d’ogni libertà, l’irreggimentazione ed i comportamenti delatori, aberranti, all’interno di una società opprimente, nella quale ‘tutto ciò che non è proibito è obbligatorio’.
Diceva il mio maestro Franco Venturi: la parola libertà non si mette mai tra virgolette.
Montevideo, 7 febbraio 2025