
Se il folklore giapponese, distante da noi nello spazio e nel tempo migliaia di anni e di chilometri, è, malgrado questa distanza, filtrato in Occidente già alla fine dell’800 tramite intellettuali come Lafcadio Hearn, la cui opera, pur osteggiata da Orwell per il suo supposto esotismo, è stata meritoriamente prima riscoperta (da Adelphi) e poi ri-animata (da L’Ippocampo, con le splendide illustrazioni di Benjamin Lacombe, in seguito addirittura esposte in una mostra a Milano), il folklore slavo, a noi ben più propinquo, è rimasto ai nostri occhi, e tanto più a quelli del pubblico americano, maggiormente nell’ombra, eccezion fatta per le vicende dei vampiri romeni capitanati da Vlad III di Valacchia – per gli amici Dracula. E questo nonostante la civiltà contadina slava, a differenza di molte altre tra cui la nostra (almeno secondo Pasolini), abbia continuato ad esistere, pressoché identica a se stessa, per millenni, e fino agli anni ’80, al di là della Cortina di Ferro, siano sopravvissute comunità in cui, grazie alla memoria degli anziani, era possibile trovarsi catapultati nel passato: un passato sovietico e postsovietico, certo, quello rappresentato nei film di Emir Kusturica e in “Good-bye Lenin!”, ma anche e soprattutto un passato remoto di izbe infestate da strigoi, wurdulac, rusalki e strzyga.
A colmare in parte questa lacuna nella narrativa di genere contemporanea (così come nel mondo del gaming ci ha provato, con alterne vicende, “The Witcher” e, nelle serie tv, “Tenebre e ossa”) hanno contribuito esperimenti come quello di Nicolaj Lilin sulle “Leggende della Tigre”, ma soprattutto “Madre delle Ossa” di David Demchuk, tradotto in italiano da Claudia Durastanti per Zona42 Edizioni.
Quella di Demchuk, ucraino d’origine trapiantato in Canada, non è solo un’antologia horror, bensì un romanzo corale composto a mo’ di mosaico, o forse di specchio rotto in mille frammenti che il lettore deve ricomporre, sulla guida delle suggestive fotografie dell’archivio di Costicã Acsinte, pioniere romeno della fotografia di guerra e, poi, della ritrattistica.
Il fil rouge che unisce i protagonisti della storia – anzi, delle storie -, che non interagiscono affatto gli uni con gli altri pur gravitando tutti attorno agli stessi tre villaggi e alla fabbrica di porcellana, è, a ben vedere, quello del genius loci e della memoria. Una memoria che si “sente nelle ossa”, come dicono gli inglesi (“to feel in one’s bones”), una memoria che, seppur per certi versi pervertita e spaventosa – come, d’altro canto, lo è stato il vissuto di molti popoli dell’Europa orientale – è l’unica speranza di sopravvivenza di un volk, di un popolo, i cui appartenenti, come tutti coloro che sono stati vittime o protagonisti, obtorto collo, di una diaspora, prima di arrendersi, finiscono per sussurrare: “Il nostro paradiso era qui, così com’era. Abbiamo vissuto, abbiamo amato, abbiamo visto cose bellissime e terribili, e ora finisce”.
Le ossa, d’altronde, sono da sempre un’effigie legata alla memoria: si pensi agli ossari come quello di San Bernardino, tra le tappe più inquietanti e interessanti della Milano segreta, o alla cripta dei frati cappuccini di Roma. Un memento mori, certo, ma anche un ricordo e un residuo alito di vita, spesso inciso sull’architrave delle cripte: “Quello che voi siete, noi eravamo; quello che noi siamo, voi sarete”.
Demchuk però, da drammaturgo postmoderno qual è, non trascura l’altra faccia della medaglia del racconto e della tradizione orale della memoria: il silenzio nelle sue varie accezioni, prima fra tutte quella del “rimosso”/non detto psicanalitico. Molti dei protagonisti del volume, infatti, sono costretti da una delle figure mitiche in cui si imbattono al silenzio, per salvare se stessi e i loro cari o per proprio tornaconto, silenzio che avrà spesso conseguenze nefaste e richiama i traumi non elaborati di cui i personaggi sono stati vittime. Di più: la movchanya di “Madre delle Ossa” non è mero silenzio ma una vera e propria maledizione di infertilità e di denatalità, che mette in pericolo l’esistenza stessa di una comunità rurale, interrompendone la continuità e le consuetudini, pericolo che può essere scongiurato solo dalla riemersione del non detto, delle preziose identità dei singoli, unico veicolo (e tra i veicoli sicuramente una scialuppa) della sopravvivenza dell’intero popolo. La memoria può quindi essere un rifugio provvidenziale, ma anche una gabbia da cui le individualità devono svincolarsi, come isole che si allontanano dalla terraferma; è ciò che avviene in “Underground” di Kusturica, che infatti si conclude con un nuovo inizio onirico e quasi fiabesco: “C’era una volta un Paese…”.