
L’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata caratterizzata da manifestazioni contro
la separazione delle carriere tra Magistratura requirente (il pubblico ministero) e giudicante (il giudice che decide).
Ciascuno la pensi come vuole. Mi limito a una riflessione personale. Per il mestiere che ho cercato di fare, da 50 anni sono a contatto con la Magistratura: ho rispettato i magistrati per regola di comportamento e, verso alcune/alcuni, ho nutrito e nutro profonda stima e ammirazione.
Degli Occhi e Borrelli
L’avvocato Degli Occhi diceva al giovanissimo Francesco Saverio Borrelli, appena giunto a Milano: “I magistrati italiani? Moralmente integri nella pressoché assoluta totalità. Professionalmente competenti nella stragrande maggioranza. Alcuni alacri e volonterosi. Pochi o pochissimi capaci di organizzare e di organizzarsi”.
Piero Pajardi diceva che…
Giudizio tuttora valido a dispetto della costante lamentazione sulla durata dei processi. Del resto un accademico e magistrato di rango, Piero Pajardi, diceva che “se il solo obbiettivo è la rapidità nell’arrivare alla sentenza, tirare a sorte è il metodo
imbattibile, oltre al resto con il 50% di decisioni giuste.”
Art. 68 della Costituzione
E allora dov’è il problema? L’archetipo ideale del giudice dipende da quel che si chiede al processo. Quanto meno, nel rapporto con la politica si scivola, anche perché la legge costituzionale del 29/10/1993, modificando l’art. 68 della Costituzione, ne ha cambiato il testo (“Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà ecc.”), togliendo: “può essere sottoposto a procedimento penale“.
Da allora la Magistratura ordinaria può avviare un processo penale nei confronti di un parlamentare senza speciali lasciapassare. Tutto più bello, trasparente, egalitario? Non so…
Il processo Montesi contro… Piccioni
Certo, i Costituenti avvertivano il pericolo della lotta politica combattuta per interpretazioni, processi e sentenze. Emblematico fu il processo Montesi (1954 – 1957), utilizzato da esponenti della Dc per impedire ad Attilio Piccioni di succedere ad Alcide De Gasperi.
Cancelli aperti tra processo e politica possono essere un guaio: la sentenza diventa parola del Signore per la parte che ha ragione; diventa messaggio di Satana per chi ha torto. Con ricadute sulla fiducia nella Magistratura, osannata da una parte, esecrata dall’altra.
“La società degli applausi”
Se ciò che si chiede al processo finisce per descriverci le caratteristiche salienti del giudice, quello ideale: A) conosce la norma; B) capisce appieno la situazione di fatto, di contesto e di storia in cui la norma si cala. Cioè sa rendere concreta l’attuazione dell’ordinamento giuridico, ascoltando la propria coscienza, sebbene la “società degli applausi” sia ostile. E ancora: è capace di una sintesi convincente tra legalità (rispetto delle norme) e giustizia (principi sopra le norme).
Nomos delle leggi
Con memoria grata, per quanto mi riguarda, ai Professori del Ginnasio che – avevo 14 o 15 anni – mi hanno spiegato che Nomos (lo spirito delle leggi – norme) sposò Eusebeia (la pietà), generando Dike (la giustizia).
Forse è persino troppo. E’ una smisurata responsabilità, ma è anche il fondamento
dell’affermazione che la decisione è presa “in nome del popolo italiano”. Il resto è …
contingenza.