In cerca della vera dimensione Russa. Sull’identità dell’enorme nazione si discute da secoli, almeno a partire dal “modernizzatore” Pietro il Grande, ammiratore della tecnica, della scienza, dell’economia dell’Europa occidentale , ma pienamente dentro il solco della più ferrea autocrazia patria per quanto riguarda la politica interna. Come è noto, ci sono da una parte coloro che ritengono che la Russia debba rivolgersi verso il modello occidentale, sottolineando l’arretratezza del proprio Paese troppo ancorato a tradizioni arcaiche. Sul fronte opposto troviamo gli slavofili i quali sono fermamente convinti che la Russia sia anche Europa ma non solo Europa, che la sua anima sia qualcosa di più vasto e assolutamente peculiare. Ovvero un Paese bicontinentale con plurime radici culturali che si possono riassumere nella concezione euroasiatica. Dostoevskij è solo il nome più celebre fra i tanti sostenitori di questa visione.
“Non v’è dubbio che proprio quella sera mi sfiorò per la prima volta la coscienza che ero russo e vivevo in Russia (…) e d’un tratto la sentii, questa Russia, sentii il suo passato e presente, le sue selvagge, terribili e tuttavia affascinanti caratteristiche e il mio legame di sangue con essa…” Con queste parole lo scrittore Ivan Bunin, nato nel 1870, nella nobiliare tenuta paterna di Voronev, sita nella Russia meridionale, ci dà un assaggio di cosa sia materiata la specifica identità russa. Il brano è tratto da “La vita di Arsen’ev” che la raffinata casa editrice milanese Medhelan ripropone nella classica traduzione del grande slavista Ettore Lo Gatto, con una perspicua introduzione di Andrea Tarabbia che tratteggia la poetica di questo grande autore ancora troppo poco noto da noi.
Soprattutto grazie a questo libro Bunin fu il primo scrittore russo, nel 1933, ad essere insignito del premio Nobel per la Letteratura. La notizia venne del tutto taciuta in Unione Sovietica perché l’autore era da tempo emigrato in Francia, detestando i bolscevichi che avevano imbrattato, con l’orrore e la bruttezza delle loro opere, proprio l’antica anima russa. Ed è giustappunto per provare a comprendere cosa sia questo evocato spirito nazionale, apparentemente evanescente, ma profondamente radicato nel secoli, che è opportuno oggi leggere “La vita di Arsen’ev”. Perché, per sviscerare dal di dentro alcune sottili questioni culturali, a volte un’opera eminentemente letteraria come questa è più utile di un saggio storico.
Si potrebbe dire che il libro è un’autobiografia sotto mentite spoglie in quanto quella di Arsen’ev, personaggio di invenzione, è per molti versi una vita parallela a quella dello stesso Bunin, a cominciare dalla fanciullezza in campagna, anche se non è del tutto sovrapponibile. Lo si è definito romanzo, ma il libro è privo di una vera e propria trama, essendo formato da una serie di grandi quadri che vanno dall’infanzia del protagonista fino alla sua giovinezza. In definitiva siamo di fronte a un poema in prosa in cui la vena lirica delle descrizioni e delle sensazioni risulta prevalente. Infatti, lo stesso autore si riteneva soprattutto poeta. Il padre di Bunin-Arsen’ev era un simpatico nobile spendaccione, interessato più alla caccia e alla bottiglia che alle questioni pratiche ed economiche. La tenuta familiare va così progressivamente in rovina e deve essere venduta a pezzi. Si tratta di una situazione che spesso abbiamo incontrato nei romanzi russi, una rappresentazione abbastanza tipica della vita nobiliare di provincia a cavallo tra il Diciannovesimo e quello seguente, prima dello scatenarsi dell’ondata rivoluzionaria.
Bunin, mentre detestava il complicato e drammatico psicologismo di Dostoevskij, amava invece con grande trasporto l’opera di Tolstoj, tanto che alcuni critici hanno accostato alcune atmosfere dei suoi libri all’autore di “Guerra e Pace”, ma i lettori non devono certo aspettarsi delle trame ben delineate come quelle di quel libro o di “Anna Karenina”. Come detto, “La vita di Arsen’ev” vive soprattutto delle immagini che la spiccata sensibilità dell’autore gli detta. Suoni, colori, odori scatenano una serie di madeleine quasi proustiane. La nota dominante è una totale immersione nella natura simile, per certi versi a uno scrittore diversissimo come D’Annunzio, dove in luogo del vitalismo “eroico” del grande abruzzese predomina una vena malinconica e nostalgica.
La presenza incombente dell’enigma della morte è al centro dell’opera di Bunin. “Gli uomini non sono affatto ugualmente sensibili alla morte. Vi sono uomini che vivono tutta la vita sotto il suo segno; sin dall’infanzia hanno un acuto senso della morte (il più sovente in forza dell’altrettanto acuito senso della vita) “ E poi il senso e il bisogno di Dio. “Dio è nel cielo, in seno a un’inconcepibile altezza e forza, in quell’incomprensibile azzurro che è in alto, sopra di noi, sconfinatamente lontano dalla terra: questo penetrò in me sin dai primi giorni, come il fatto che, nonostante la morte, ciascuno di noi ha in sé un’anima e che questa anima è immortale”. Ecco i temi di Bunin, i temi di quella grande anima russa, che non deve e non può essere annegata in una indistinta omologazione priva di radici.
Bel ritratto
Interessante, uno scrittore in effetti non noto ma che comunque e’ un’ altra prova della grandezza della letteratura russa. Strano pero’ che avversasse il cosiddetto psicologismo di Dostoevskij. Non mi pare sia psicologismo