Accendete la radio. Quella di radica di noce, il modello con le valvole e l’altoparlante nascosto dalla rete avana all’interno del mobile radio, quella degli anni ’20 a onde medie. Ce l’avete, da qualche parte, nascosta nella soffitta dei nonni oppure procuratevela presso un antiquario, anche un rigattiere. Girate la manopola, vabbè gracchia un po’ prima di catturare la frequenza. Ora la musichetta parte, abbiate pazienza. Chiudete gli occhi, anche voi generazione della trap: concedetevi una pausa di melodie, facili e sentimentali, motivetti per lo più con il ritornello in posizione. Le parole vi sembreranno arcaiche ma vi verrà voglia di ballare perché c’è un’orchestra che suona. Chiudete gli occhi. La musica riempie lo spazio intorno, il naso cattura l’odore nei capelli dell’acqua Chinino Migone, sul viso il vento della frangia di un vestito di donna. Precipitati nello spazio tempo dei ricordi, i vostri o tramandati dalla voce delle nonne, delle mamme, delle zie. Quando aprirete gli occhi, sarete a teatro.
Sul palco Mario Incudine vi sta trascinando nella più ruffiana, malinconica, dolceamara, gioiosa ora e mezza della vostra vita. Tanto dura Parlami d’amore- Quando la radio raccontava la vita, lo spettacolo di teatro canzone con Mario Incudine cantastorie, attore, compositore, geniaccio della teatralità, accompagnato in scena dal maestro Antonio Vasta.
Incudine trascina letteralmente il pubblico dentro una macchina del tempo, anche quello che molti spettatori non hanno vissuto, ma chissà come alla fine tutti cantano insieme a lui. Cantano un repertorio che si apre con “Come pioveva” (1918, Armando Gill e poi Achille Togliani e Luciano Tajoli) e termina con “Parlami d’amore, Mariù”(1932, Bixio autore, voce Vittorio De Sica) in mezzo ci sono venti anni di musica leggera e di storia pesante. Gli anni dell’avvento del Fascismo e delle canzonette allegre e spensierate mentre il jazz, appena arrivato in Europa, veniva messo al bando.
“Ci addormentammo cantando Giovinezza e ci svegliammo cantando Bella Ciao”, scrive Costanza Di Quattro autrice di un testo di grande eleganza e impatto emotivo. Un testo denso, che sa aprire le ferite della storia e le finestre dei ricordi. Un testo pieno di grazia e di impegno. Costanza di Quattro è una delle voci più interessanti della narrativa contemporanea: la sua scrittura s’immerge nel romanzo familiare e nella sua Ragusa, Ragusa Ibla in particolare, in una sorta di metonimia della memoria. In questo spettacolo dà voce e consegna la narrazione alla prozia, nata nel 1927, “figlia di un’epoca che vide la guerra e che usò la radio per distrarre dall’orrore e dalla sofferenza…di quel mondo fatto di testi che raccontavano la vita vera, di melodie ricercate e di dolori mai sopiti” scrive nella presentazione del libretto che contiene il testo e il cd delle musiche.
Il primo dolore la morte del maestro Lucia, che le insegnava il pianoforte e l’amore struggente “e io pensavo ad un sogno lontano/a una stanzetta dell’ultimo piano” quando anche lei un giorno si sarebbe riparata “in un porton/elegante nel suo velo con un bianco cappellin” e le avrebbe pure insegnato che felicità e dolore sono un intreccio nella trama del ricordo “non ti scordar di me”.
La prima canzone di cui si è innamorata, le canzoni dello stivale portatele dallo zio intellettuale “Tanto pe’ cantà” con cui Incudine infiamma platea e palchi, battimani a tempo e ugole sfrontate: un dejavù lungo un secolo e finito nella sua voce adatta a ogni tonalità, persino quella lirica che apre lo spettacolo con un accenno dell’aria di “Tosca” di Puccini. Qua e là Di Quattro dissemina sentenze sulla musica che sono dichiarazioni d’amore. “La musica è l’unica verità che conosciamo”, ”Bisogna diffidare sempre di chi non canta…chi non canta non è libero”. Il 10 giugno del 1940 il suono della radio è un tuono: Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia. Lo stupore, l’assurda e incosciente allegria di un Italia fascista per indolenza. “Eravamo tutti fascisti…tutti allineati e coperti dinanzi a un pensiero unico, ad una volontà altrui”, tutti con le scarpe lucide e un treno che li porta al fronte, da cui molti non sarebbero tornati.
Parlami d’amore rinnova egregiamente la tradizione del teatro canzone e gioca, grazie alla regia minimale di Pino Strabioli dove a contare sono i colori dello sfondo, un pianoforte, una lavagna con il disegno della radio, l’immancabile teatro dei pupi (immancabile per Incudine, immancabile il teatro per Di Quattro che un teatro gioiello dirige insieme alla sorella a Ibla), una marionetta con le ruote a effigiare il re Vittorio Emanuele, protagonista della sequenza più comica e irriverente di uno spettacolo scanzonato pieno di canzoni.
Incudine poteva farsi mancare tre momenti, tre pezzi forti che gli scorrono nelle vene? Incudine e la parodia: ecco una versione cantata e recitata di “Profumi e balocchi” e “Maramao perché sei morto” (andare a teatro solo per questo è farsi un regalo). Incudine e il teatro: la scena del funerale siciliano, il cunto sulla poesia di Luigi Mercantini Una Madre Veneziana al Campo di San Martino, il racconto di sé bambino e della musica, il siparietto col maestro Vasta? No, stavolta Vasta suona e basta, pianoforte e fisarmonica sempre con la stessa sapienza. Incudine e il corpo scenico: balla sulle note di “Il tango delle capinere” e poi si dona al pubblico, tutto. E lo spettacolo diventa un musicarello e un ballarello.
Il pubblico canta, in platea muove i piedi, sui palchi anche i fianchi. La memoria dilaga nella gioia. La tristezza delle cose della vita, le canzonette che il fascismo usò come diversivo risuonano in tutta la loro nostalgica bellezza, liberate dalla Storia ed entrate nelle piccole storie di ognuno di noi. Eccola, la maliarda sirena di nome Mariù: la gioia della musica, la carezza del ricordo, lo scroscio di interminabili di applausi.