A un certo punto di L’abbaglio il regista Roberto Andò ha chiesto a Toni Servillo, nel film il colonnello garibaldino Vincenzo Giordano Orsini di diventare il viandante solitario di Caspar David Friedric, stagliato in controluce su un precipizio roccioso e di dare la schiena al pubblico in sala, ma ha tolto davanti al generale in marsina del pittore tedesco la nebbia, perché ad Andò la nebbia non piace né serve. Inutile girarci attorno: sullo stesso strapiombo Roberto Andò ha messo se stesso. Pochi intellettuali e artisti, infatti, hanno come Andò chiare le cose da dire e la visione del proprio tempo e le sue radici. La memoria, motivo privilegiato dell’intera sua speculazione, non è un esercizio tecnico o retorico ma è l’atto di infilare le mani nel tempo delle cose, delle vite e delle idee. Nei sogni con il loro carico di illusioni, delusioni e proditorie vittorie. Nell’abbaglio, appunto. Quello che fu il Risorgimento per la Sicilia e per l’intera famiglia italiana rivelatesi col senno di poi un’impresa più garibaldesca che garibaldina.
“Tenetevela stretta questa speranza di poter cambiare il mondo” dice il colonnello Orsini al giovane tenente Ragusin che porta con sé (impressa nelle espressioni della faccia del bravissimo Leonardo Maltese) una parte del tema del film ovvero i sogni infranti di una generazione, il posto dentro il romanzo di formazione di una generazione partita con il sogno della libertà e costretta a vedere quanto sia alto, cruento e ingiusto il prezzo da pagare. Ai giovani Andò ha dedicato il senso del film, le scene più vibranti.
All’undicenne Bepin fatto arruolare dal padre patriota e finito per vederne il cadavere. Al pastorello (Matteo Bariletti) una sorta di piccola vedetta lombarda in tinta pasoliniana, che confonde l’odore di pecora con quello del riscatto e, il più puro di tutti, cerca Garibaldi come Gesù Cristo ma trova la morte. L’adolescente del nord e quello del sud, perché come ha dichiarato Servillo, nell’impresa si trovarono due generazioni unite dallo stesso ideale. E finiti nei fondi di caffè della tazzina di Orsini o nel gioco di carte di Rosario Spitale (il baro interpretato da Valentino Picone) o nella borsa della suora gertrudiana Assuntina (un’ammaliante Giulia Andò).
La scommessa
Finiti cioè nella scommessa, com’è la stessa azione da cui muove il film, una manovra diversiva, il gioco della guerra dentro la guerra. Finiti dentro quelle illusioni con cui i Siciliani, dice sempre Orsini, muovono il mondo pur non credendoci più. Alla discussa figura di Orsini, qui centrale e magmatica grazie a Toni Servillo per le cui prove attoriali non bastano i superlativi, Andò lascia il compito della tesi, della sua stessa voce poetica, del suo impegno intellettuale. A lui la meraviglia e il rischio di tradurle in finzione. Pertanto, le puntualizzazioni degli appassionati neoborbonici valgono finché accendono il dibattito, ma non possono negare il senso dell’operazione del film. Se è vero che l’abbaglio esclamato alla fine del film da Orsini è la materia su cui Andò imprime la metafora scopertissima di tutta una tradizione postrisorgimentale ferocemente critica riguardo il passaggio forse innaturale verso l’Unità (il separatismo del Sud, il leghismo del Nord, la proposta di Autonomia differenziata agitano la storia italiana dal suo nascere), Andò rovescia la tesi di D’Azeglio: gli italiani c’erano già e vennero in Sicilia. Sono i siciliani a essere stati traditi e a tradire quel sacrificio, quell’unica epopea italiana, ripetuta con le stesse luci e ombre nella Liberazione dal fascismo. “I Siciliani hanno perso ogni speranza di poter cambiare il corso della Storia, perché ogni volta che hanno provato a migliorare la propria condizione i loro tentativi sono stati soffocati nel sangue, da chi li domina, l’aristocrazia più corrotta d’Europa”, quei notabili che negarono asilo ai garibaldini feriti e affamati, “ombre, larve di un’umanità che sta sparendo” dice Orsini (sentite l’eco del Gattopardo o dei Vicerè?).
Questo è il film di Andò: l’epopea abbagliata dalla luce del riscatto e accecata dall’arraffo e dalle promesse tradite. L’Italia fu fatta nel 1860 dalle idee di Mazzini, dal braccio armato di Garibaldi e dal pragmatismo di Cavour. C’è pure Manzoni che sovrappone al terzetto quel popolo oppresso di umili che combatte e si sporca di sangue anonimo il corpo e la camicia. La letteratura ha registrato le dissonanze ben prima della storiografia: la finzione si può permettere visioni e previsioni. Risulterebbe sicuramente ozioso fare una carrellata letteraria ma basti segnare il triangolo Verga- De Roberto- Tomasi di Lampedusa (tutti dentro il film) per comprendervi chi sul Risorgimento ha scritto pagine abbaglianti. Per primo Leonardo Sciascia cui si deve la fonte letteraria del film ossia il racconto “Il silenzio” sui fatti di Sambuca di Sicilia. Racconta Sciascia: la colonna di garibaldini, «stracchi nel passo, improvvisamente stanchi e spersi», comandata da Orsini per attuare una manovra diversiva, voluta da Garibaldi, allo scopo di far credere a Jean-Luc Von Mechel (Pascal Greggory), comandante svizzero dell’esercito regio, che il generale stia battendo in ritirata all’interno dell’isola, dopo essere stata respinta dagli abitanti di Giuliana, arriva a Sambuca. Qui le camicie rosse vengono accolte, curate e sfamate. Un’epigrafe ricorda la sollecitudine dei sambucesi a futura memoria.
Andò rifà dal racconto di Sciascia il dialogo tra Orsini e il tenente Ragusin «E più lo colpiva che in queste condizioni di vita non diverse da quelle della capra, dell’asino, la gente conservasse intatti ed alti i sentimenti umani: la pietà, la gentilezza, il coraggio. E si chiese se davvero avevano il diritto di portare a gente simile nuove sofferenze, la violenza della guerra, il rischio della devastazione e del saccheggio, e in nome di che cosa. “In nome della libertà di scrivere dei libri, di pubblicare dei giornali, di eleggere dei rappresentanti?… E la libertà di non avere fame, di abitare in luoghi più umani, di vestire dignitosamente?”» Il film parte da Quarto e arriva a Marsala sulle note di un “Va’ pensiero” che man mano da canto di idee si trasforma nella colonna sonora del disincanto. A proposito, la ricerca musicale del film merita un capitolo a parte.
Di battaglia in battaglia fino alla presa di Palermo, eccetto per un manipolo di disgraziati che sarebbe rimasto indietro all’appuntamento della Storia, bloccato a Sambuca di Sicilia, se non fosse per due ancora più disgraziati, un baro e un contadino zoppo Domenico Tricò (Salvo Ficarra) che riscattano la propria viltà, salvando il paesino e la manzoniana invenzione.
La grande storia
Scandaglia la storia grande dentro le piccole storie dei contadini cui spetta l’innocenza dell’ignoranza e della povertà. Andò vince la scommessa con il genere facendo di “L’abbaglio” una raffinata impresa linguistica, tutta giocata in chiave prospettica. A partire dalla sfida delle scene d’insieme finora non congeniali alla sua cinematografia
Racconto dall’alto
E’ una questione di prospettiva mettere corpo, anima e pure penna e cinepresa in posizione. Dall’alto verso il basso e viceversa, far volare il drone, vero e metaforico, dell’intelligenza critica sulla storia. Il linguaggio del film parte dall’alto: Tommaso Ragno interpreta da par suo un Garibaldi non empatico chiuso nel recinto militare anche mentale, scollato fisicamente dai giovani che manda a morire e la Chiesa talmente estranea alle vicende che può essere ripresa con un volo vorticoso dall’alto che si specchia nel labirintico giardino di un convento di suore bare e ladre o in un parroco, un reviviscente don Abbondio del romanzo degli italiani (Rosario Lisma). Alto e basso da visione etica si fa estetica della macchina da presa e Andò scrive (con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) e dirige (con l’apporto prezioso della fotografia di Maurizio Calvesi) un film che dà lustro all’ingiustamente vituperata cinematografia italiana. Un film pieno di citazioni, una fra tutte “La grande guerra” di Mario Monicelli, richiamata da molta critica anche e soprattutto per i ruoli affidati a Ficarra e Picone.
Un appunto. Andò ama i suoi attori, quelli con cui lavora per la prima volta e quelli cui non rinuncia: oltre il già citato Lisma tre su tutti, Filippo Luna, Aurora Quattrocchi (splendido cameo) e Vincenzo Pirrotta (l’archetipo della mafia viene cucito addosso alla sua faccia). Ama Toni Servillo, l’attore con cui Andò sembra aver stretto un patto gemellare. E ama Ficarra e Picone, qui svincolati dalla tentazione di coppia oleografica e restituiti alla loro individualità di attori, nella loro vera prima eccellente interpretazione drammatica.
Ficarra e Picone sorprendenti
La sorpresa di “L’abbaglio” sono loro. Ficarra e Picone restituiscono certamente ai loro personaggi lo status di maschera e allora si può continuare a evocare i Franco e Ciccio o come in questo caso i Sordi e Gassman. Ma si farebbe l’errore di vedere nel baro e contadino solo le spruzzate di ironia e comicità di cui sono naturali portatori. Innanzitutto si scambiano le parti: a Valentino spetta il lazzo comico del deretano impallinato e mostrato alle suore, a Ficarra il dolore per la morte del pastorello o le lacrime per il tradimento dell’amata. A entrambi spetta di incarnare il trasformismo dei siciliani, figlio di ingegni mai sazi, di portare nelle loro facce e nel mascheramento (Ficarra che si finge parroco evoca Aldo Fabrizi di “Roma città aperta”) la strabica metafora della propria terra “Ti immagini che fanno capitale Palermo?”. Si farebbe un errore guardarli solo come coppia e solo come comici, si cadrebbe nell’ultimo abbaglio.
La solita roba: Risorgimento orrore orrore, italiani tutti ipocriti, Chiesa corrotta, Paese schifoso, liberta non “da” (come dovrebbe essere e come ricordava di recente il presidente argentino Milei) ma “di” (un pretesto per accrescere il potere dello Stato e dei politici, siano socialisti, comunisti o fascisti o che si voglia). Le solite autodenigrazioni italiane più il solito sinistrismo da quattro soldi. Altro che capolavoro.