Il filosofo Massimo Donà ha definito, da tempo, la propria visione del mondo. La via donaiana si è costituita in uno stringente confronto teoretico con i fondamenti del pensiero europeo, dei quali ha svelato la costitutiva aporeticità. Donà, come notò Mario Perniola, ha contezza che l’aporia non è data, nelle nostre esistenze, dall’inciampo della morte, ma è inscritta nella vita stessa, nell’origine che la anima, vale a dire in un principio nel quale negativo e positivo si dicono in uno.
L’autentico filo-sofare ha, secondo Donà, tratto poietico. L’arte, a differenza del concetto distinguente, ci pone di fronte all’aporeticità del principio. La bellezza, a ben vedere, mette in scena l’infondatezza, la non entificabilità dell’arché. Tale assunto lo si evince anche dall’ ultima fatica di Donà, È un enigma, questo. La filosofia di Moby Dick, nelle librerie per le Edizioni ETS (pp. 161, euro 16,50). Nelle sue pagine il pensatore veneziano analizza il capolavoro di Melville, pubblicato nel 1851. Molteplici sono le interpretazioni di quest’opera che, il più delle volte, viene derubricata al genere del romanzo d’avventura. In realtà, lo scrittore americano in essa si confronta con la dimensione erratica della conoscenza.
La narrazione di Melville si snoda attorno all’ossessiva caccia alla balena bianca perpetrata da Achab, capitano del Pequod, grazie all’aiuto di un equipaggio costituito da personaggi di varia umanità: «a partire da Ismaele (che avrà poi il compito di raccontare la demoniaca caccia)» (p. 7). Tra gi uomini dell’equipaggio si distinguono Queequeg, nipote di un Gran Sacerdote polinesiano, Nantucket: «Un Quacchero […] razionale e cauto» (p. 7), il collezionista di pipe Stubb e Flask, il meno sensibile tra loro al fascino del mare. Donà discute le posizioni sostenute dagli esegeti di Moby Dick soffermandosi, tra le altre, sulle tesi di Fernanda Pivano, Cesare Pavese, Carl Schmitt e Italo Calvino. Con quest’ultimo, è convinto che la storia di Melville sia: «una grande epopea in chiave simbolica con risvolti metafisici» (p. 9). I nomi dei protagonisti della cerca in questione rinviano a fonti bibliche, discusse con persuasività ermeneutica dall’autore. Ismaele rimanda: «al grande personaggio biblico, figlio di Abramo e Agar […] Così come rinvia a un personaggio biblico anche […] Achab» (p. 11). Pavese colse nel segno nel sostenere che a una lettura accorta Maoby Dick: «si svelerà […] per un vero e proprio poema sacro» (p. 12). Ismaele è un esiliato dalla modernità. Nella città dei traffici commerciali e mercantili egli vive: «un umido e tedioso novembre dell’anima» (p. 13). Sulla terra, dove tutto è misurabile, calcolabile, egli vive da straniero: «condannato a un’inautenticità da cui non gli resta che fuggire» (p. 12) verso lo sconfinato mare. L’ignoto lo chiama a sé.
Navigando sull’oceano: «non si potrà fare a meno di teorizzare il principio primo» (p. 14), venendo, in qualche modo, reclamati da Dio. Tutti i protagonisti di Moby Dick, pur scegliendo di veleggiare verso le acque aperte, sono consapevoli, come lo stesso Achab, di essere sovrastati da un ineluttabile destino. È la tensione all’infinito a condurli tra le onde. La stessa balena bianca, del resto, ricorda i biblici Leviatano e Behemoth, mostri acquatici di fronte alla cui potenza caotica, insensata, l’uomo, come Giobbe: «non può far altro che riconoscere la goffaggine e la meschinità della conoscenza» logocentrica (p. 17). L’esistente, infatti, rileva Donà: «rimarrà sempre libero; mai lasciandosi catturare […] dalle categorie o dagli a-priori capaci di decidere solo del volto fenomenico del reale» (p. 18). Davanti alle determinazioni escludenti, ogni volta, torniamo a fare esodo, a non sentirci a casa. I protagonisti del romanzo melvilliano sono protesi verso l’infinito, che agita le stesse forme date, come riconobbe Leopardi. La conversione di Giona lo insegna. Essa prevede: «lo sprofondamento nel ventre del grande pesce […] reclama un’esperienza dell’inabissamento» (p. 22). La cifra del Leviatano (e di Moby Dick) è: «emblema di una inritraibile e irrappresentabile differenza assoluta, a sua volta assolutamente differente […] dalla necessariamente naufragante, perché impotente, volontà di verità incarnata dall’ossessione furiosa di Achab» (p. 27) Non è la ferita fisica infertagli dalla balena a spingere il capitano all’impresa, ma il vuoto procuratogli da una ferita esistenziale inguaribile, provata di fronte al mutismo della Natura. L’intrepido marinaio vuole ferire la balena per dividere in essa il bene dal male: «ma volendo questo, Achab vuole l’impossibile» (p. 31), dividendoli, infatti, finirebbe per determinarli. Combatte, in tal modo, l’assolutamente altro della sua finitezza. Lo provano, anche le fonti mitiche cui Melville si richiama.
Achab-Melville è paradigma del melanconico: nell’arte marinaresca, nel silenzio notturno degli oceani, ritrova quel nulla che solo l’essere può sperimentare. Infatti, dice il capitano: «nell’infinita continuità del mare […] vi investe un sublime nulla, non sentite notizie, non leggete gazzette» (p. 45). La malinconia induce la nostalgia per l’indefinito, per quel nulla che in tutto, emianamente, vive. L’acqua, come mostra il mito di Narciso, ci attira irresistibilmente. Essa riflette l’infinitudine che alberga nel finito, del quale restituisce il “niente”. Proprio come avviene quando ci confrontiamo con la bellezza, porta regale che attraversa il visibile e conduce all’invisibile e che dice il più remoto essere, di fatto, il più prossimo. Narciso andò incontro alla medesima sorte di Dioniso: il dio nello specchio non sapeva di vedere se stesso. L’ombra riflessa è la nostra più profonda realtà. Sotto la superficie acquatica si aggira Moby Dick: «lì sotto si nasconde la distinzione assoluta» (p. 134). La balena è, non casualmente, bianca: in quanto il bianco allude a un vuoto immane che è massima pienezza, annullamento di ogni colore e: «fusione di tutti i toni dello spettro luminoso» (p. 139). Moby Dick testimonia il misterium vitae costituito da un’opposizione assoluta.
La sua apparizione è epifania celeste. La dicotomia melvilliana pone ai poli opposti Achab e la balena: «per questo è assolutamente impossibile de-cidere chi dei due sia l’incarnazione del bene e del male» (p. 142). Nella nostra esperienza, infatti, abbiamo sempre a che fare con la con-fusione degli opposti. Il cuore del reale è detto dal bianco della balena, mentre: «il volto mutevole del medesimo va invece ricondotto ad un uniforme […] grigiore» (p. 146). La balena albina, con la sua spettralità, allude alla: «radicale messa in scacco del logos filosofico e delle sue millenarie pretese» (p. 150). I colori testimoniano l’inganno della molteplicità, la bianca Moby Dick simboleggia quel: «vero principio di luce che tutto riesce a distinguere conformemente alla determinatezza che, sola, avrebbe potuto distinguere ogni cosa da ogni altra, ma che, in se stesso, non è distinto da nulla e dunque nemmeno “fondato”» (pp. 153-154). Quella di Melville è visione tragica, in cui la vita è dominata dal “caso”: il principio è affermazione e negazione in uno, come nelle corde della filosofia di Donà.
Massimo Donà è sicuramente uno studioso interessante, di lui avevo acquistato “Tutto per nulla” su Shakespeare ; non ho comprato più nulla di questo autore dopo aver letto il suo nome tra i firmatari di un appello pro ius soli nel 2017.
Adesso son passati otto anni, potrei anche interrompere il boicottaggio,che ovviamente non riguardava solo lui( anche perché questa legge sciagurata non è stata approvata), magari prendendo questo libro o quello riguardante la filosofia dell”Orlando furioso”…