
Vincenzo Roppo e Vittorio Coletti – autore di un importante saggio , Figure della crisi 2, il PM, il Professore, ed. Il Canneto – hanno giustamente denunciato le “derive burocratico-tecnocratiche, che da un po’ di anni si sono impadronite della vita universitaria”, come “la mania della valutazione quantitativa dei prodotti della ricerca”.
Una serie A comporta una serie B
In sintesi, la Commissione concorsuale, chiamata a giudicare la produzione scientifica di un candidato, deve tener conto delle riviste che hanno pubblicato i suoi saggi (ovvero se rientrano nella classe A), degli editori e delle collane in cui sono apparsi i suoi libri etc. etc.
Concordo sulla critica dei due colleghi, ma ritengo che occorra individuare la logica sottesa alla filosofia dei concorsi universitari. Tale logica, va riconosciuto, s’inquadra in una preoccupazione (di per sé legittima) di evitare giudizi arbitrari e di imporre criteri oggettivi di valutazione : se i tuoi saggi compaiono su riviste prestigiose e vengono pubblicati da case editrici di riconosciuto peso culturale, c’è poco da dissentire in sede di commissione valutatrice e il problema diventa solo quello di ‘misurare’ la quantità degli scritti presentati.
I parametri ministeriali
Sennonché, a ben riflettere, questa oggettività è la fine della responsabilità, nel senso che i commissari non debbono impegnarsi seriamente nella valutazione di un lavoro scientifico, ma solo verificare se rientra nei parametri ministeriali. Questo significa che se Kant avesse pubblicato la Critica della ragion pura presso un editore qualsiasi e fatto uscire a puntate la Critica della ragion pratica su una rivista per massaie, nessuno gli avrebbe conferito un insegnamento universitario. Ma c’è di più.
Le “scuole di pensiero”
In una cultura come quella italiana, dominata dalle “scuole di pensiero”, in cosa può consistere il “prestigio” di una rivista o di una casa editrice? Gran parte di quanto si legge nelle riviste scientifiche di area umanistica è mera ideologia e, quanto alle case editrici “prestigiose”, basta leggerne i cataloghi per trovarvi autori e libri che, nella vecchia Università di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, non sarebbero stati ritenuti meritevoli neppure di una borsa di studio. (Da Il Giornale della Liguria)
*Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università degli Studi di Genova
Scontata, da decenni. Nel 1978 decisi di lasciare l’Università di Torino, dove avrei avuto ragionevoli speranze di successo e carriera, dati i libri ed articoli già pubblicati, in quanto non iscritto al PCI, allora dominato, per la Storia Moderna, da Tranfaglia e dallo stesso allievo di Franco Venturi, Giuseppe Recuperati con alcuni altri.
Non fui il solo. Anche Giuseppe Parlato emigrò a Roma, alla corte di De Felice….
A Torino c’erano allora anche i vecchi azionisti. Che per sopravvivere approvavano ogni prepotenza del PCI…
Un eccesso di discrezionalità è insito nel meccanismo di ogni concorso, soprattutto di un concorso universitario. E valutare la qualità con criteri quantitativi è molto aleatorio. L’università è una società aristocratica, e si riproduce fatalmente per cooptazione. In passato, esisteva senz’altro un eccesso di segno opposto. Una volta, un insigne cattedratico mi raccontò l’aneddoto del presidente di una commissione che, siccome i commissari non si decidevano a scegliere i vincitori, minacciò di “mettere in cattedra il bidello” (non so se lo fece; forse avrebbe insegnato meglio di molti docenti di oggi). Discriminazioni basate sugli editori comunque ci sono sempre stati. Pubblicare col Mulino era molto più utile (e soprattutto meno dannoso) ai fini della carriera universitaria che farlo per Volpe, e un insigne studioso del fascismo, che fece questa scelta, ne trasse beneficio. Del resto anche sui giornali si recensisce spesso più l’editore che il libro…