
Il nuovo anno ha recato con sé la scomparsa di due eminenti personalità della cultura di sinistra. Uno è Furio Colombo, l’altro Oliviero Toscani, morti a distanza di pochi giorni, il 14 gennaio il primo, il 13 l’altro, quasi a significare la fine di un’epoca. Poco e molto li accomunavano: l’amore per la Maremma toscana – Colombo prediligeva per le sue vacanze Capalbio, Toscani trascorreva gran parte dei suoi giorni a Casale Marittimo, in una tenuta dove allevava cavalli e curava vigne, – l’impegno politico a sinistra, ma il portafoglio rigorosamente tenuto a destra, e indubbiamente una straordinaria capacità comunicativa.
Con Toscani non ho mai avuto un rapporto, se tale non può essere considerato l’aver bevuto del vino prodotto nella sua tenuta. La sua capacità di far soldi attraverso immagini pubblicitarie scioccanti e blasfeme, dalle foto dei condannati a morte al bacio fra un prete e una suora, mi ha sempre suscitato disgusto. Chi vuole, naturalmente, è libero di apprezzarlo e di considerarlo un gigante: chi lo ama, lo segua.
Ebbi invece modo di conoscere Furio Colombo nell’ormai lontano 2007, il 23 agosto, nel corso di uno degli incontri che tenevo alla Versiliana insieme all’indimenticabile – ma, purtroppo, da molti dimenticato – Romano Battaglia.

Si trattava, per la verità, di un incontro decentrato. Si tenne, infatti, in un caffè di Montecatini Terme e partiva dalla presentazione dell’ultimo libro di Colombo, intitolato La fine d’Israele e uscito per i tipi del Saggiatore. Era un anno particolare. La sinistra governava, come era successo dopo il 1996, con un esiguo quanto casuale margine di seggi e Colombo univa all’attività di giornalista e scrittore quella di senatore eletto nelle liste del Pd, membro della Commissione Affari Esteri. Conoscendo la violenta campagna che, come direttore dell’Unità, aveva condotto contro Berlusconi, pensavo di trovarmi di fronte a un fazioso. Invece mi trovai di fronte a un abile e a tratti quasi mellifluo interlocutore, che anche alle domande più insidiose che cercai di porgli era capace di rispondere con pacatezza: una chiave per comprendere il successo non comune che aveva incontrato in un ambiente insidioso come quello del giornalismo. Mentre fuori della platea il pubblico rumoreggiava, tanto da indurre Battaglia a invocare, inesaudito e forse nemmeno tanto convinto, l’intervento delle forze dell’ordine, Colombo alla mia domanda se, dopo essere stato il presidente di Fiat Usa non si fosse trovato in imbarazzo nel dirigere “il quotidiano fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci”, a suo tempo fomentatore dell’occupazione delle fabbriche, mi rispose con voce flautata rivendicando la sua “piemontesità”, intrisa anche di culto del lavoro ben fatto, e la sua sintonia con i liberal statunitensi alla Ted Kennedy. Quando gli chiesi, più direttamente, se avesse avuto due facce diverse, con l’andare del tempo, mi rispose in maniera un po’ melliflua di avere conosciuto un’evoluzione, sì, ma come succede sempre nella vita. Quanto alla sua direzione dell’Unità, rivendicò con orgoglio di non essere mai stato condannato per avere diffamato qualcuno con l’attribuzione di fatti non veri. Il giornalista scafato e navigato al momento di andare in pagina aveva evidentemente avuto la meglio sul sanculotto dell’antiberlusconismo.
Quanto al tema del suo libro, dopo essersi espresso molto diplomaticamente su un altro, ben diverso testo uscito sull’argomento, Viva Israele, di Magdi (non ancora Cristiano) Allam, Colombo formulò alcune analisi ancor oggi valide, come il fatto che nella maggior parte del Vicino Oriente siamo condannati a scegliere fra Paesi arabi non democratici ma non fondamentalisti e Paesi arabi con governi fondamentalisti, eletti democraticamente da popolazioni fanatizzate dal clero. Lo seguii meno quando negò che l’immigrazione musulmana costituisse un pericolo per gli ebrei europei, ma qui credo che la sua appartenenza politica avesse la meglio su una razionale valutazione della realtà effettuale.
L’impressione con cui uscii comunque da quell’incontro (di cui chi eventualmente sia interessato può facilmente ascoltare l’audio conservato nelle teche di Radio Radicale) fu quella di essermi trovato di fronte a un uomo intelligente, di quell’intelligenza pratica che a volte scollina nella furbizia, conscio della sua importanza, ma non arrogante, come sono a volte molti mediocri, sostanzialmente libero, come può esserlo chi non ha bisogno di scendere a compromessi per rimanere sulla cresta dell’onda.
Lo dimostrò negli anni Novanta, quando professò la convinzione che Mambro e Fioravanti fossero estranei alla strage di Bologna, convinzione ribadita anche un anno fa, quando il caso tornò di attualità in seguito alle dichiarazioni di Marcello De Angelis. Colombo era convinto che la bomba fosse stata fascista, ma non credeva che i due esponenti dei Nar, da lui visitati in carcere, ne fossero responsabili. Da dove provenissero quelle sue convinzioni in materia non ebbi allora la curiosità di chiederglielo; forse ne avrei trovato l’occasione se, come consuetudine dopo gli incontri alla Versiliana, fossimo andati a cena, ma la cena non ci fu. Pochi minuti dopo la presentazione Colombo era già ripartito. Naturalmente per Capalbio.