
Tra i libri evoliani davvero importanti, usciti in occasione del cinquantenario della scomparsa del pensatore tradizionalista, va annoverato, Julius Evola, Scritti per «Vie della Tradizione» 1971-1974, da poco nelle librerie per l’Arco e la Corte (per ordini: info@arcoelacorte.it, pp. 119, euro 15,00). La raccolta uscì in prima edizione, quale supplemento del n. 104 della stessa rivista. Nella nuova pubblicazione vengono riproposte la premessa di Gaspare Cannizzo, indimenticato fondatore del periodico e l’introduzione di Gianfranco de Turris, accompagnate da una breve nota di Anna Cannizzo. Inoltre, nel volume è riprodotta una lettera di Evola del 29 luglio 1971 indirizzata a Cannizzo inerente i termini della sua collaborazione a «Vie della Tradizione». Non solo il filosofo collaborò al periodico, ma si attivò per procurare alla testata altri preziosi contributi. Cannizzo scrive, dopo aver reso onore alla coerenza di vita e pensiero di Evola: «Questo nostro supplemento […] vuole essere un omaggio alla sua memoria, un omaggio a un vero, forse ultimo, Uomo della Tradizione» (p. 17). I pezzi evoliani, dodici in tutto, furono pubblicati a partire dal secondo numero nel 1971 e non cessarono di arrivare alla redazione fino all’anno della dipartita (1974) del pensatore.
De Turris rileva che si tratta tanto di saggi organici,dottrinali e interpretativi, quanto di scritti dal taglio giornalistico. A prevalere sono gli scritti del primo tipo, alcuni davvero rilevanti sotto il profilo teorico. Essi discutono: «temi e filosofie care a Evola […] Buddhismo zen, Via della mano sinistra, iniziazione, magia sessuale» (p. 21). Tra gli altri vanno segnalati I centri iniziatici e la storia e Il mistero della decadenza. Ci intratterremo, per ragioni di spazio, solo su alcuni di essi. In particolare, su quelli maggiormente vicini alla sensibilità di chi scrive. Muoviamo da, Dioniso e la “Via della mano sinistra”. Nelle sue pagine, Evola presenta al lettore le potenze divine di Dioniso e di Apollo. L’uomo originario era animato da un’ «inaudita vocazione», voleva porsi oltre l’essere: «per il potere di essere e non essere, del Sì e del No» (p. 85). Tale uomo aveva in sé, a differenza degli dèi, anche la natura mortale, con l’infinito in lui viveva, oltre ogni dualismo, il finito. Le potenze spirituali furono staticizzate: «in forma di esistenze oggettive autonome […] resa esterna e fuggente a se stessa, la potenza perse le specie di esistenza oggettiva […] e la libertà […] si fece la contingenza […] dei fenomeni» (p. 86). Il “dio ucciso” dell’ illimitato, Dioniso, assunse le fattezze del limite, della forma, dell’atto aristotelico: divenne Apollo.
Questo dio è essenzialmente conoscenza distinguente, centrata sulla “visività” spazio-temporale del principium individuationis. L’uomo principiò a “dipendere” dalle cose, dal desiderio, e fu rettoricamente, avrebbe chiosato Michelstaedter, condizionato: «la tangibilità e solidità delle cose materiali […] sono l’incorporazione» del principio infinito (p. 87). Il limite è rappresentato dalla legge, positiva e morale in uno, che tacita la potenza. Si tratta, attraverso la “Via della mano Sinistra” di superare l’orrore per l’ apeiron. L’individuo assoluto, in tale contesto si pone al di là del dominio della significazione e del finalismo: la sua coscienza è la stessa che vive nell’Uno-Tutto, nel cosmo, non è più correlativamente legata alle cose, agli atti, si cala nella profondità della vita, oltre le categorie della “causalità” e della “ragion sufficiente” e di qualsivoglia “provvidenzialismo”. L’Io ha in sé la possibilità dionisiaca di abbattere le barriere apollinee: «Così è attestata la tradizione riguardante la “Grande Opera”, la creazione di un secondo “Albero di Vita”» (pp. 89-90). Vanno strappati, allo scopo, i veli che celano la potenza che ci abita: bisogna consistere in essa, senza recedere. Tale è, del resto, la “morte iniziatica”. Una via, ricorda Evola, pericolosa, per pochi…
Sul tema il pensatore torna nel saggio, L’antico simbolismo erotico nell’Oriente e nel Mediterraneo. In questo scritto mostra come il pensiero cinese consideri yin e yang, maschile e femminile, principi agenti nel cosmo, in un’interazione instabile. Dottrina non dissimile da quella attestata nel tantrismo da Çiva e Çakti. Anche l’Europa antica, la Grecia aurorale e Roma, conobbero concezioni siffatte e Bachofen, richiamandole a nuova vita, costruì la propria visione del mondo, centrata sull’antitesi di genecocrazia e civiltà uranica (che Evola invertì di segno). Per il tradizionalista, a riguardo, risulta dirimente il simbolismo dell’amplesso invertito, testimoniato già nell’antico Egitto: un amplesso connotato dall’immobilità del maschio e dalla motilità della femmina: «La vera virilità non agisce in modo materiale, essa suscita solo il movimento, lo comanda» (p. 115). Nella “Via della Mano Sinistra” il dvandvâita è superore a tutti gli opposti, al maschile al femminile, non è più legato alla dimensione attuale degli enti, è pura libertà-potenza: «la via può venir paragonata all’andare sul filo del rasoio o a cavalcare la tigre» (p. 117).
Merita attenzione, tra gli altri, il saggio, Il morso della tarantola. In tale scritto, Evola presenta le civiltà tradizionali come altre rispetto a quella moderna, prodotta dal “morso della tarantola”. L’uomo occidentale soffre di questo morso letale, produttore di decadenza, da quando il suo immaginario è stato colonizzato dall’idolo della dismisura capitalista. Il filosofo, in queste pagine, è aspro critico, più che in altri scritti, della politica espansionista e mondialista della civilizzazione americana: intento del capitalismo, chiarisce: «è condurre a termine le nuove invasioni barbariche» (p. 105). Un progetto, quindi, da fermare. Il morso della tarantola è un saggio di grande attualità. Scritti per «Vie della Tradizione» 1971-1974 è volume da leggere e meditare.