
Attinge a un repertorio ricco e variegato – testimonianze dirette provenienti dalle sponde opposte, documentazione d’archivio, verbali delle sentenze giudiziarie, del collegio dei docenti e del Consiglio comunale – Nicola Rao nel libro “Il tempo delle chiavi – L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza”, pubblicato da Piemme e incentrato sulla ricostruzione di una vicenda nota a buona parte dell’opinione pubblica in modo sommario.
I cenni al clima che si respirava nelle scuole e nelle università sin dagli anni della contestazione, in cui iniziarono a diffondersi le pratiche delle intimidazioni e dei “processi proletari” ai professori che si rifiutavano di abolire il divieto del “salto di appello”, fungono da prologo all’introduzione del contesto arroventato degli anni di piombo.
Milano divenne rapidamente il centro di frequenti scontri tra i componenti del servizio d’ordine del Movimento Studentesco dell’Università Statale (i cosiddetti Katanghesi) e gli avversari sanbabilini, guadagnandosi l’etichetta di laboratorio d’incubazione di una violenza gratuita e indiscriminata espressa in forme distinte: organizzata e forte di un largo consenso quella esercitata dai primi, improvvisa e isolata quella appannaggio dei secondi.
La paura di due minacce complementari, il “pericolo fascista” associato alle voci di un imminente colpo di Stato e l’ascesa al potere dei comunisti, si riprodusse con alcune specificità al livello delle battaglie di strada, particolarmente visibili e cruente nella periferia est di Lambrate – Città Studi.
La forte ostilità manifestata dalle squadre di sinistra verso i trozkisti di Avanguardia Operaia, radicati presso le facoltà scientifiche del quartiere e desiderosi di espandersi, sfociò nell’imboscata a colpi di chiave inglese in cui questi ultimi ebbero la peggio durante il comizio di commemorazione della strage di piazza Fontana tenuto nel 1973 da Andreas Papandreu, leader della resistenza al regime dei colonnelli greci.
Incassato lo schiaffo senza che molti giovani finiti in ospedale sporgessero denuncia, il gruppo emergente affinò i propri livelli di militarizzazione e struttura mutuando dagli aggressori l’utilizzo della nuova arma contundente.
L’omicidio Ramelli
Svariati esempi (tra i più eclatanti la vendetta per la strage di Brescia consumata dalle Brigate Rosse contro la federazione provinciale del Msi di Padova) smentiscono la tesi, circolata in alcuni ambienti nell’immediatezza della morte di Sergio Ramelli, secondo la quale l’omicidio abbia costituito un caso circoscritto. Se gli agguati non risparmiarono, talvolta, studenti estranei alla politica e il furore ideologico impedì di distinguere elementi provocatori o legati ai servizi da buona parte dei semplici militanti o simpatizzanti, è opportuno soffermarsi sui fatti che coinvolsero il fiduciario del Fronte della gioventù dell’Istituto Molinari.
Preso di mira per il contenuto di un tema sul terrorismo e costretto a cancellare scritte fasciste apparse sui muri dell’edificio, probabilmente opera della manovalanza di chi aveva premeditato il suo assassinio, il ragazzo si trasferì non senza difficoltà in una scuola privata; l’automobile del suo insegnante di religione, reo di averlo difeso, venne data alle fiamme.
A seguito di un brutale pestaggio, Ramelli finì in prognosi riservata il 13 marzo 1975; la notizia fu accolta in Consiglio comunale con applausi e manifestazioni di giubilo, mentre il discorso del capogruppo missino Tommaso Staiti di Cuddia venne continuamente interrotto dal pubblico presente alla seduta.
Lo stillicidio di azioni, reazioni e vendette che seguirono e scatenarono la caccia al fascista indussero il questore e il prefetto a non autorizzare il corteo funebre, una volta sopraggiunta la morte dopo oltre un mese e mezzo di agonia; militanti di Avanguardia Operaia fotografarono dalle finestre della facoltà di Medicina i rivali diretti in chiesa, al fine di individuarli e schedarli. Quasi da subito note a sinistra, le responsabilità furono immediatamente coperte e non mancarono tentativi di depistare le indagini ai danni dei Comitati autonomi di Casoretto.
E’ significativo che il magistrato Guido Salvini, titolare dell’indagine che a metà degli anni ottanta consentì di far luce sull’accaduto e di ottenere alcune condanne per omicidio volontario, segnali nella post-fazione che gli autori del delitto (individuati, grazie alla collaborazione di ex terroristi di Prima Linea, in alcuni membri del servizio d’ordine dell’ateneo, protagonisti di un’azione approssimativa e inadeguata anche sotto l’aspetto militare) non si costituirono all’autorità giudiziaria pur avendo vissuto gravi casi di coscienza, prigionieri di una gabbia culturale e ideologica di massa.
Trovano così una spiegazione logica la pesante campagna ostile contro i pubblici ministeri, i comizi improvvisati davanti al tribunale e il fatto che “la città reagì in modo particolare alla serie di arresti, perché studenti poi divenuti medici in buone posizioni beneficiarono di un’omertà d’ambiente che li aveva salvati per dieci anni”.
Non desta, d’altro canto, sorpresa che alcuni partecipanti al convegno organizzato da Democrazia Proletaria nell’ottobre del 1985 nel capoluogo lombardo sottolineassero da un lato la necessità di pene lievi ed esprimessero dall’altro timori per il tentativo di delegittimare la storia del ‘68 e della sinistra, mettendo a tacere rare e autorevoli voci dissonanti.
Venne successivamente alla luce, in un abbaino intestato ad uno degli esecutori materiali del misfatto, l’archivio di viale Bligny 42, un deposito di armi, divise, detonatori, documenti delle Brigate Rosse, fotografie, diapositive, schedature ed effetti personali sottratti ad attivisti politici con metodi polizieschi. Minacce e furti di documenti personali si protrassero almeno fino al 1980, anche allo scopo di ottenere informazioni sui nominativi dei fascisti e sui loro luoghi di ritrovo.
Rientra nella casistica ed è rivelatrice, allo stesso tempo, di un parziale mutamento di paradigma la vicenda del pestaggio di Sergio Spagnolo al liceo classico Parini. Autore di un articolo in cui sosteneva che la capacità di attrazione dei gruppi di sinistra fosse ormai in via di esaurimento, il giovane fu sottoposto a un processo politico; l’assemblea convocata dai collettivi si espresse, tuttavia, contro il suo allontanamento dall’Istituto.
Le lievi pene comminate ai suoi aggressori da parte dell’autorità scolastica, di fatto annullate perché gli eventi si verificarono in un momento dell’anno prossimo alla sospensione delle lezioni a causa di un doppio appuntamento elettorale, sono indicative di un malcostume abbastanza simile a quello che aveva spinto alcuni membri del collegio dei docenti, voltatisi nel caso di Ramelli dall’altra parte per ragioni politiche o per timore senza rendersi conto delle proprie responsabilità morali, ad attaccare la preside del Molinari per aver denunciato ad un quotidiano l’atmosfera di tensione e di intolleranza imperante nella scuola.
Conclusioni
Il lavoro di Rao ha una chiara impostazione giornalistica, uno stile diretto, semplice e asciutto.
L’epilogo ruota intorno alle divisioni e alle polemiche che puntualmente si registrano intorno alla data del 29 aprile, una ricorrenza che per Milano equivale alla sovrapposizione del caso approfondito nella monografia con quelli dell’avvocato Enrico Pedenovi (consigliere provinciale missino ucciso nel 1976) e di Carlo Borsani, invalido di guerra e medaglia d’oro al valore militare, allontanato da Mussolini ai tempi della Repubblica di Salò, attivo nella difesa degli ebrei e nella promozione del dialogo con la Resistenza, infine giustiziato dai partigiani.
Le parole di condanna del fascismo espresse da Giorgia Meloni nel discorso d’insediamento alla presidenza del Consiglio vengono sottoscritte dall’autore, propenso a distinguere la propria posizione da quelle di osservatori e politologi convinti che l’atteggiamento della leader di Fratelli d’Italia sia orientato piuttosto a silenziare la tematica, dandole una dolce morte.