
Il percorso evolutivo di Paolo Cognetti segue tempi diversi, a cui la moltitudine non è più abituata. Segue il ritmo delle vecchie stagioni, i movimenti delle sue amate betulle, il nascondersi vorticoso delle acque sotto i ghiacciai perenni. Cognetti non è tornato, ha semplicemente rialzato la testa, come le marmotte in primavera fuori dalle loro tane, per dare un’occhiata al mondo, sussurrare qualche insegnamento imparato nella terra del Sole e ritornare a ripararsi dalla violenza del mondo in-civilizzato.
“Fiore mio” appare sugli schermi italiani a due anni dall’uscita del film “Le otto montagne” e consacra l’autore, ora regista e produttore, a punto di riferimento per chi vuole tentare di trovare un’armonia nel mondo, attraverso i consigli della montagna che, pur nelle difficoltà del momento, ci dimostra ogni giorno come, in realtà, ogni apparente immane tragedia, porta con sé nuova vita. Non c’è disperazione in “Fiore mio”, lo si apprende dai dialoghi sinceri ed essenziali dei protagonisti del film, che nulla chiedono e nulla si aspettano. Non c’è catastrofismo e facile retorica da rivista green, lo si comprende dall’incedere lento e pacifico di tutti gli elementi, ben armonizzati nella logica discreta e disinteressata del suo regista.
C’è l’urlo silenzioso di un uomo, fin troppo umano, che schiude a tutti noi la sua esistenza, apparentemente pacifica a stretto contatto con la montagna; non per aprire un nuovo sentiero ma per rimarcare le vecchie orme di sempre. La montagna è lì, si staglia sullo schermo senza tanti stratagemmi cinematografici, non vi è modo ormai di separare l’uomo Paolo Cognetti dalla sua montagna, il Monte Rosa, ma è una montagna che non risolve i problemi anzi, li esacerba con violenza, perché si fa specchio angosciante di sé, delle proprie fragilità e cupe malinconie. La montagna dunque anche in questo caso, come per “Le otto montagne”, diventa archetipo, stimolante ma angosciante e pericoloso insieme, e gli archetipi non si può pretendere di spiegarli con nuove ricette pop all’avanguardia, con gli archetipi bisogna sbatterci la faccia. E Cognetti ci mostra ancora una volta che lui non si vuole tirare indietro. Con il suo solito tatto, con un candore che a molti irrita, con una pazienza e una discrezione quasi anacronistici per il mondo urbano e globale. “Fiore mio” non è dunque un film sulla montagna, ce lo si aspettava, è un film sulla montagna che si fa simbolo di qualcosa e che ognuno porta dentro di sé, ogni giorno che trascorre su questa terra. Chi conosce lo scrittore vuole e cerca questo e non ha piu bisogno del beneplacito rumoroso e social. Bene fa Cognetti a sfrondare, a non seguire piu i numeri, a rispondere alle critiche con la propria fragilità umana. “Fiore mio” può avere il potenziale di essere il primo assaggio di una rinnovata sensibilità verso la Natura e i suoi elementi.
Sembra che Cognetti con la sua opera voglia indicarci, controcorrente e contro ogni aspettativa, che se l’uomo non può salvarsi da solo, la Natura, al di là del tempo e dello spazio e al di là dell’uomo di ogni Era, si salva continuamente da sola, sotto gli occhi disattenti, disabituati e volutamente annebbiati degli esseri umani.
Il docufilm scorre tra riprese mozzafiato del Monte Rosa e i consueti, ma mai banali, piccoli gesti del protagonista che si mette a nudo e osa tentare di rimediare un farmaco per la sua muta sofferenza all’interno dell’inesorabile ciclicità terrorizzante, ma allo stesso tempo consolatoria, della Natura. Nelle immagini precise e silenziose della cinepresa di Cognetti che mira il Rosa, vi è il medesimo silenzio della Luna del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, vi è lo stesso imbarazzo, la consueta e disarmante impotenza dell’Uomo di fronte alla Natura. Ma la risposta che tutti, i moderni più che gli antichi, gli adulti prima che i bambini, vorrebbero, Cognetti non ce la regala e ancor più non cadrebbe nel sacrilegio di vendercela. Semplicemente rimembra, a chi vuole spogliarsi delle proprie sicurezze, che la risposta è nella Luna “mai paga di andar i sempiterni calli”, nell’albero di Rilke “che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene…”. Tutto ruota attorno all’attesa paziente ed invisibile. Dell’uomo e del suo rapporto con il mondo.
La tazza tibetana posta sul tavolo di ciliegio del rifugio di montagna di Cognetti conserva l’acqua che ogni giorno scorre nei nuovi torrenti che si vengono a creare con lo sciogliersi del ghiacciaio del Rosa. È la vita che continua a scorrere, tutto lì. Poi vi è l’uomo che si accontenta di guardare solo la foce e l’uomo che cerca con tutte le forze di arrivare alla fonte. Tutto qui. Cognetti fa quello che può con la sua arte, con le sue cadute e con le sue “meditazioni delle vette”. Averne di artisti così che non trovano il loro posto stabile e confortevole nel pantheon della letteratura contemporanea. Cognetti ormai può viaggiare da solo, lui lo sa, sta a noi decidere o meno di andare a trovarlo.