
Torino 1950
Ora Giovanna Gagliardo dedica a Pavese un documentario che da Pavese prende in prestito anche il titolo: Il mestiere di vivere. Il documentario ha però un’impronta televisiva (spiace l’incipit con inquadrature di jumbo-tram e strisce pedonali, che nella Torino 1950 non c’erano).
La vicenda comincia dall’ultimo giorno di Pavese: tra 26 e 27 agosto 1950. Prosegue con una serie di interviste a persone che lo conobbero, per lo più ormai scomparse, più alcuni studiosi della sua opera, dalla quale, negli ultimi decenni, sono caduti i veli.
La supplica al Duce
Ora di può vedere sul grande schermo la supplica manoscritta al Duce, che, da Brancaleone di Calabria, Pavese mandò nel 1936 per sottrarsi al confino per attività antifascista. Attività non sua, ma di una donna comunista, alla quale Pavese si era prestato, per amore, come “buca delle lettere”.
Si possono infine sentire parole che si sono sempre potute leggere. I lettori però sono meno numerosi degli spettatori dei cinema. Sono le parole ispirate a Pavese da un episodio nel novembre 1944 a Santo Stefano Belbo di “guerra civile”, la definizione che lui usava. Non “resistenza”, non “guerra di liberazione”.
Paolo Zappa, commissario Rsi
Ma nemmeno qui si sente il nome di Paolo Zappa, romanziere, agente segreto, dall’autunno 1943 alla primavera 1945 commissario dell’Einaudi. Per damnatio memoriae la casa editrice ha espunto dal catalogo i testi pubblicati a Torino in quell’anno e mezzo). Se di Zappa non si fa il nome, però si cita il ruolo. E prima o poi qualcuno si ricorderà anche di lui. Del resto, nel 1971, quando l’Italia era in buoni rapporti con l’intero Maghreb, dal Sergente Klems di Zappa uscì l’omonimo film di Sergio Grieco (1971).
Bobbio, Ferrarotti, Mila
Il documentario della Gagliardo reca – grazie agli intervistati (Norberto Bobbio, Franco Ferrarotti, Massimo Mila…) tra 20 e 40 anni fa – la retorica laico-democratico-antifascista di una volta. Ma anche questa è esistita nella storia patria…
Ciò che conta, oggi, è che con questo documentario un ventenne scopra nel passato una letteratura italiana immune dallo Strapaese o dalla Stracittà. L’America di Pavese è un modello di prosa asciutta, perché sotto l’egemonia di Roosevelt si poteva dire quasi tutto, perché quasi nulla cambiava col dirlo.
Una scheggia del ‘900
La Einaudi torinese e poi romana di Pavese, tra 1933 e 1950, non era la Vallecchi fiorentina di Ardengo Soffici. Anche per questo l’attività di Pavese ha lasciato un segno: non è un residuo di ‘800, ma è una scheggia di ‘900, che si prolunga fino a noi.
Dal documentario della Gagliardo, tacitamente, emerge un paragone. Pavese non è mai fascista, come era stato Elio Vittorini; né antifascista, come era diventato Elio Vittorini. Pavese non odiava. Amava – tanto da allevarli come autori – anche chi non pareva meritare attenzioni. Perciò ci manca tanto.
Il mestiere di vivere di Giovanna Gagliardo, documentario, 90′