Usciamo da poco dalla lettura di un testo di grande rilevanza teorica che si confronta con la crisi del Politico nel mondo contemporaneo. Ci riferiamo al saggio di Agostino Carrino, giurista e teorico del diritto, Le ragioni di Creonte. Sul moralismo politico, edito da La nave di Teseo (pp. 242, euro 20,00). L’autore presenta, attraverso la discussione di una bibliografia vastissima, lo stato presente delle cose. Carrino è dotato di una non comune capacità scrittoria che rende godibile il volume: la sua prosa introduce anche i non specialisti all’interno delle problematiche giuridiche e filosofiche di cui tratta. Il suo argomentare, articolato in una contestualizzante introduzione e in cinque capitoli, muove dalla constatazione aristotelica: l’uomo è “animale politico”. Il concetto di politico, ricorda lo studioso, è connesso al termine greco polis e, per certi versi, rinvia a quello di polemos. Il conflitto, stante la lezione di Eraclito, è il sovrano della storia.
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Oggi, la concretezza del reale è negata, in quanto: «Ciò che vale sono solo le astrazioni, i principi universali» (p. 16), nonostante Schmitt e Freund abbiamo rilevato che polemos: «è inerente, consostanziale a ogni società» (p. 17). La categoria del Politico ha prodotto i concetti di Stato, di ordine giuridico e di sovranità. A Roma e ad Atene la polis faceva riferimento al popolo, era espressione di una cultura, di una storia, di un territorio. Tale dimensione è stata sostituita, in un complesso percorso storico, dal riferimento alla morale e, successivamente, dall’ipermorale (Gehlen), una morale astratta e frammentata, la “religione dei diritti” dell’individualismo neoliberale. Tale sviluppo è stato anticipato, tanto da Schmitt quanto da Karl Polany ne, La grande trasformazione. A partire dal 1814, con la sconfitta di Napoleone, la talassocrazia inglese impose l’autonomia dell’economico. La dimensione economica non fu più intesa come una delle componenti del sociale, ma rivendicò: «la propria indipendenza e soprattutto il proprio primato» (p. 21).
Il moralismo che, ab origine, accompagnò la dottrina del mercato autoregolato non poteva, si badi, negare del tutto il reale. Lasciò, quasi inconsciamente, sopravvivere scorie del Politico, la contrapposizione di “destra” e “sinistra” che, ancora oggi, pare animare la storia contemporanea. Non poteva essere diversamente: il primato dell’economico è, esso stesso, di natura politica e cela interessi concreti. Il Politico si definisce nella contrapposizione amico/nemico, è potere che si afferma. Le istituzioni contemporanee, tra esse l’Unione Europea, non sono più neppure democratiche: mancano di kratos, potenza, comando, capacità direttiva. Lo Stato è deprivato della sua essenza costitutiva, l’autorità: «la quale è un aspetto fondamentale dell’eticità come prodotto dell’esperienza giuridica e politica del passato, del presente e futuro di un popolo» (p. 27). Lo Stato è, in quanto tale, produttore di leggi, testimonianti le “consuetudini” consolidate di una comunità. Carrino, con persuasività d’accenti e in modalità organica, chiarisce, in tutta evidenza, la relazione che lega regola generale ed eccezione: «L’eccezione serve perché la validità della regola sia validità concreta e possibile» (p. 31). Non è necessario, in tema, essere decisionisti. Perfino Kelsen, teorico del normativismo, ebbe contezza che l’eccezione è deroga dalla legge, non sua nullificazione. Schmitt precisò che la regola è comprensibile solo muovendo dall’eccezione. Non casualmente, il filosofo e giurista tedesco, discusse in Sociologia del concetto di sovranità e teologia politica, il comma 2 dell’art. 48 della costituzione di Weimar, che riconosceva i principi dello Stato di diritto e le competenze eccezionali del monarca. Tale costituzione, al pari di quella austriaca del 1920, non fece che trascrivere ambiguamente la crisi della borghesia giunta all’apice del proprio sviluppo e la sua contrapposizione ai nuovi ceti emergenti. In letteratura, ricorda l’autore, tale crisi è testimoniata da I Buddenbrook di Thomas Mann. Quella di Weimar fu una Costituzione “postuma”, una “sala d’attesa” la definirà Joseph Roth, sospesa tra due Reich. Per tale ragione la sua storia fu: «una lotta per l’appropriazione della costituzione da parte di questa o quella forza politica» (p.73), priva di qualsivoglia vita e fondamento, testo “incompiuto” che realizzò una “policrazia”, incerta tra diritti sociali e liberali. Solo questi ultimi, nei fatti, risultarono vincolanti. L’incertezza generale, così generata, favorì l’ascesa di Hitler. Al termine del conflitto mondiale, l’idea del diritto “moralizzato” si concretizzò nell’Unione Europea: «Un ordinamento giuridico senza Stato» (p. 104).
Un organismo senza popolo e senza potere politico, autoreferenziale e dominato dalla Corte di Giustizia. Tale istituzione ha indotto a considerare Stato e nazione forme associative superate e pericolose per l’affermazione, contro il Sein, l’Essere storico-consuetudinario, del Sollen, il dover-essere utopistico della “religione dei diritti”. Sull’altare del Sollen, declinato nel senso della cultura gender e Woke, si sacrificano oggi gli interessi dei cittadini europei. In tal senso, la Corte di Giustizia si propone quale: «guardiano dei valori inseriti e considerati innati […] nel testo costituzionale» (p. 111), diritti puramente astratti. L’ordinamento europeo è, pertanto, omogeneo all’universalismo morale della modernità. Di fronte al divampare del conflitto russo-ucraino, l’UE si è posta quale paladina della “sovranità” del popolo dell’Ucraina contro Putin, personificazione del male, recuperando, paradossalmente pro domo sua, il principio della “sovranità”. Solo il ritorno a una costituzione “assoluta”, che tenga conto dell’ordine multipolare del mondo fondato sui grandi “spazi regionali” può essere in grado di fermare il processo di crisi dell’Europa: «Il concetto di sovranità va dunque ripreso all’altezza di una rivisitazione geopolitica aggiornata» (p. 127), che tenga conto del pluralismo delle culture.
In siffatta congerie, l’ inter-soggettività comunicativa evocata dall’europeista Habermas, non può giocare alcun ruolo: la comunità esiste a prescindere dagli individui atomizzati della società contemporanea. La dimensione pubblica è prodotto della storia. L’etica procedurale non può tacitare il conflitto: «delle morali concretamente e storicamente differenti» (p. 146). Dirimente, nota Carrino, è leggere criticamente il rapporto Antigone-Creonte, messo in scena da Sofocle. Le due figure tragiche, non alludono a diritti differenti, ma a diverse esegesi del diritto. Antigone è simbolo della politica della fede, dei diritti astratti dell’individuo che, a parole, inneggia alla libertà che, in realtà, nega; Creonte rappresenta, di contro, la politica dello scetticismo. Antigone è l’altra parte di Creonte. Il tiranno sbaglia nell’agire ciecamente: i suoi atti avrebbero dovuto essere “prudenti” e farsi carico dell’ “irrazionalità” di Antigone. Il contrasto va ricomposto: l’assolutezza morale e individuale di Antigone e quella altrettanto assoluta, ma pubblica, di Creonte, dovrebbero tornare a convivere, di là da qualsivoglia bilanciamento, in una politica “prudente”, da spoudaios avrebbe chiosato Platone.