Gli “antifa” di tutta la Francia hanno festeggiato la sua morte come fosse stato un 14 luglio fuori stagione, ma in realtà a determinarne il destino furono due ex partigiani, sia pure con diverse anzianità di servizio.
Il primo fu il colonnello Henri de La Vaissière, un ufficiale di carriera entrato nella Resistenza francese, al quale il sedicenne Jean-Marie si rivolse per far parte anche lui delle forze golliste. Il colonnello, da buon militare ligio agli ordini, , lo rimandò indietro, perché non era previsto l’ingaggio di minori di diciott’anni. E saggiamente lo invitò a stare vicino a sua madre, rimasta da poco vedova del marito pescatore. Jean-Marie non divenne per reazione collaborazionista, come il personaggio di un piccolo capolavoro di Louis Malle, Cognone e nome, Lacombe Lucien. Ma sarebbe divenuto uno dei più tenaci avversari, da destra, di de Gaulle e del gollismo.
L’altro antifascista (sia pure con anzianità retrodatata) che influenzò le scelte politiche di Le Pen fu François Mitterrand. In realtà, il futuro presidente della Repubblica francese in un primo tempo aveva collaborato col regime di Vichy, ottenendo persino la decorazione dell’ordine della Francisque; ma in seguito sarebbe entrato nella France Libre. La sua influenza su Le Pen è però di molti anni successiva, per l’esattezza di quattro decenni dopo la fine dell’ultima guerra. Mitterrand aveva fortunosamente vinto le elezioni del 1981 ed era presidente della Repubblica, forse più per gli errori del centrodestra che per i suoi meriti. La sua politica si era però rivelata fallimentare e aveva i suoi bravi motivi per prevedere che il sistema elettorale francese, fondato sull’uninominale a doppio turno, avrebbe provocato un successo senza precedenti dell’opposizione, aprendo uno scenario inedito per la Francia della Quinta Repubblica: la “coabitazione” fra un presidente di sinistra e un’Assemblea Nazionale di centrodestra. Per ottenere questo risultato, modificò la legge elettorale in senso proporzionale, ottenendo un duplice risultato: ridimensionare la sconfitta elettorale del suo schieramento, sconfitta che comunque nel 1986 ci fu e che portò alla sua coabitazione con Chirac primo ministro, e consentire al partito di Le Pen di totalizzare, con poco meno del 10 per cento dei voti, 35 seggi all’Assemblea Nazionale.
In seguito, il ritorno del maggioritario ridimensionò la rappresentanza del Front National, ma ormai l’emergere di una larga fascia di elettorato di destra che non si riconosceva nel bipolarismo della Quinta Repubblica era un dato di fatto. Un dato di fatto che favoriva le sinistre e danneggiava il tradizionale schieramento gollista, perché la conventio ad excludendum nel secondo turno del ballottaggio dei candidati del Front National favoriva le sinistre.
Certo, la crisi del gollismo era cominciata prima, con la prematura scomparsa del “delfino” del Generale, Georges Pompidou, e la conflittualità fra Chirac e Giscard d’Estaing, concausa della sconfitta di quest’ultimo alle presidenziali del 1981. Ma la presenza di una fascia di elettorato che non solo era esclusa dalla possibilità di entrare al governo, ma, a differenza che in Italia, non poteva “incassare” che pochi deputati finì per destabilizzare il sistema politico francese più di quanto Tangentopoli non abbia destabilizzato la classe dirigente della Prima Repubblica.
Naturalmente, Le Pen e il lepenismo non nascevano allora. Jean-Marie era un combattente di lungo corso, che aveva attraversato diverse stagioni della politica francese, dall’esperienza nei “parlamentini” universitari alle effimere fortune del qualunquismo populista di Pierre Poujade, questo Giannini con la erre moscia nel cui partito fu eletto deputato. Più che un figlio di Vichy, come sostenevano i suoi detrattori, fu un figlio del trauma della decolonizzazione; arruolatosi, dopo la laurea in Giurisprudenza, nella Legione Straniera, combatté in Indocina e in Algeria, come ufficiale subalterno. Il suo attaccamento alla Légion fu tale che, entrato nell’Assemblea Nazionale, chiese e ottenne di rimanere per sei mesi in servizio.
Con l’avvento di de Gaulle, la crisi del poujadismo e l’introduzione del sistema maggioritario gli spazi politici si ridussero per Le Pen, che però comprese, prima e meglio di molti altri, l’impatto che l’immigrazione extracomunitaria avrebbe avuto sulla società francese. Dopo un periodo di marginalità, fondò nel 1972 il Front National, un movimento nazionalista alternativo al gollismo, che poi si federò con il Movimento Sociale dando vita a quella che sarebbe stata chiamata l’eurodestra; ne adottò a fiamma tricolore, con il blu, ovviamente, al posto del verde.
Gli esordi non furono facili, anche per la concorrenza del Parti de Forces Nouvelles, più strutturato culturalmente (sposò alcune tesi della Nouvelle Droite e poteva vantare una rivista di buon livello come “Alternative Nationale”) e politicamente pragmatico, tanto da curare il servizio d’ordine nei comizi di Giscard d’Estaing alle presidenziali del 1974. Rispetto al Movimento Sociale, il Front viveva le contraddizioni di una destra francese molto più vitale di quella italiana sotto il profilo culturale, con riviste come “Lecture et tradition” ed “Occident”, “Rivarol” e “Nouvelle Ecole”, ma schiacciata sul terreno politico dalla concorrenza gollista. Fra i suoi sostenitori c’erano nostalgici del passato coloniale (il disegnatore e rockettaro Jack Marchall mi confidava che il modo migliore di strappare un applauso a un comizio dell’estrema destra era nominare, magari a sproposito, l’Algérie Française), nostalgici di Vichy, cattolici tradizionalisti, arroccati nella chiesa parigina di Saint-Nicolas-du-Chardonnet che avevano occupato per celebrare la messa secondo la liturgia tridentina (ma la loro guida spirituale era monsignor François Ducaud-Bourget, che aveva aderito alla Resistenza salvando molti ebrei, mentre la maggioranza dell’episcopato era pétainista).
Le elezioni del 1986 fecero del Front National, in cui erano confluiti molti militanti del Parti des Forces Nouvelles, un attore non di secondo piano sulla scena politica francese e del suo fondatore un moderno Tantalo della mitologia politica, destinato a sfiorare il successo senza mai riuscire a lambirlo. Non privo di doti istrioniche, Le Pen conquistò persino gli onori del gossip, come in occasione del divorzio dalla prima moglie Pierrette Lalanne; quando lei gli chiese gli alimenti, le rispose che avrebbe potuto fare la donna delle pulizie per mantenersi, al che lei posò per Playboy cinquantunenne nelle vesti di cinquantunenne cameriera sexy. Un certo esprit boulevardier non mancava ai due ex coniugi, anche se le figlie non perdonarono mai Pierrette.
Con una media del dieci per cento dei suffragi, il Front aveva raggiunto i risultati del Msi – Destra Nazionale nel 1972. L’acuirsi della crisi migratoria, con il disagio delle banlieues ma anche il disagio dei ceti popolari per la concorrenza della manodopera straniera, non poté che consolidarne i consensi. Eppure il Fn non riuscì mai a entrare nell’area del governo, un po’ perché dal contesto sociale francese non emerse nessun Berlusconi, un po’ perché nessuna Tangentopoli scompaginò almeno formalmente i partiti egemoni, un po’ perché Le Pen quando si sarebbe potuto avvicinare a maggiori affermazioni sembrava voler marcare la sua alterità rispetto agli equilibri della Quinta Repubblica con dichiarazioni che lo ponevano fuori dai giochi. In questo, assomigliava al suo sodale dell’Eurodestra Giorgio Almirante, che sembrava a tratti paventare la vicinanza alle soglie dell’area di potere. Come quando, nel 1972, all’indomani del successo alle elezioni politiche anticipate, prospettò lo “scontro frontale” (o fisico: non è stato mai appurato) con gli estremisti di sinistra, o a Milano nel 1986, al Teatro Lirico, quando, temendo forse che il suo elettorato fosse sedotto dalle sirene craxiane del socialismo tricolore, si abbandonò a un’apologia della Repubblica Sociale condita da insulti nei confronti delle “bande partigiane”.
Le Pen fece di peggio, con giochi di parole di dubbio gusto, come quando definì il ministro Michel Durafour “Dura-four crématoir” o definì le camere a gas un “point de détail” dell’ultima guerra. Queste sortite gli valsero alcune condanne penali, ma non gli fecero perdere molti consensi, visto che nel 2002 raggiunse il culmine della sua fortuna politica, superando al primo turno delle elezioni presidenziali il candidato socialista e arrivando al ballottaggio con Jacques Chirac, che comunque lo surclassò al secondo turno con oltre l’80 per cento dei voti. Cominciò allora il suo declino politico, parallelo al declinare dell’età, ma non il declino delle sue esternazioni. Nel 2014, per esempio, a proposito di alcuni artisti che si opponevano al Front national, disse che “se ne farà un’infornata la prossima volta” (e, disgraziatamente, fra i suddetti aristi c’era anche il cantautore ebreo Patrick Bruel). In quell’occasione, il giudice fu comprensivo e non lo condannò per incitamento all’odio, come avvenuto in passato. Lo condannò invece la figlia Marine, cui aveva consegnato tre anni prima lo scettro del movimento da lui fondato, e che era desiderosa di “demostrificare” il Front National, ribattezzato meno militarescamente Rassemblement National. Marine lo espulse nel 2014 con quello che in molti interpretarono come una sorta di parricidio rituale, ma che forse fu solo l’allontanamento dal salotto buono di un nonno poco presentabile, che con le sue barzellette sporche si diverte a scandalizzare gli invitati e a fare arrossire i bambini. I fatti le hanno dato ragione. Pur non avendo il carisma paterno – al faccia a faccia con Macron al ballottaggio delle presidenziali del 2017 apparve poco convincente – con il Rassemblement National ha sfiorato l’area di potere. Cosa che in politica conta più di ogni altra.
Oggi, con buona pace degli irriducibili gauchistes, e del quotidiano comunista l’“Humanité”, che ha definito la sua morte solo “un point de détail de l’histoire”, c’è forse tempo e luogo per una più serena valutazione del suo itinerario politico e forse soprattutto umano. Un passo in questa direzione è stato mosso dal sito conservatore “Le Causeur”, che non può essere certo accusato di antisemitismo: è diretto dall’ebrea sefardita Elisabeth Lévy. Il commento che Ivan Rioufol, giornalista di lungo corso, ha pubblicato dopo la scomparsa del fondatore del Front National contiene senz’altro un fondo di verità, tanto che vale la pena di citarne qualche stralcio:
“Jean Marie Le Pen, che è morto martedì nel suo 97° anno, ha vinto la sua battaglia culturale. La storia ricorderà l’impetuoso lanciatore di allarmi, più che il politico infrequentabile. In effetti, i suoi eccessi antisemiti impallidiscono in confronto alle esplosioni di odio antiebraico che si possono osservare in una parte della comunità musulmana immigrata e nell’estrema sinistra antisionista e anticapitalista. (…) Lungi dal chiudere un’epoca, la morte del fondatore del Fronte Nazionale è accompagnata, in tutto il mondo, dall’annunciato risveglio dei popoli e delle nazioni. (…) È il mondo sradicato, indifferenziato e surrogabile, sognato da Soros e applicato da Macron, che sta volgendo al termine per lasciare il posto a una sovranità più direttamente legata alla volontà dei popoli comuni. Gli occhi di Jean-Marie Le Pen si sono chiusi, mentre quelli dei francesi si sono aperti.” O almeno c’è da sperarlo, se non altro perché la morte del Front National è coincisa col decennale della strage di Charlie Hebdo, che non è un semplice dettaglio della storia.
Bell’articolo
Le Pen era un grande, De Gaulle una sghinga….