Giacomo Leopardi, Pensiero LXXXVI “Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli.”.
Giacomo Leopardi, Pensiero LXVIII “La noia è in qualche modo il piú sublime dei sentimenti umani”
Giacomo Leopardi , Dialogo di Tristano e un amico “Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo”
Riassumendo: Giacomo Leopardi pensava che l’unica siepe da non oltrepassare fosse l’impropria conoscenza, che la noia (ovvero il desiderio d’infinito) fosse la più grande bellezza e che gli uomini credessero solo a ciò che entra nel perimetro della propria esperienza. In un paradossale, e confessiamo pericoloso, tentativo di parafrasi di queste citazioni rispetto alle due puntate della miniserie Leopardi- il poeta dell’infinito potremmo dire che i più di quattro milioni di spettatori di Rai 1 (share al 28%) sono stati condotti oltre ogni limite di conoscenza e almeno di un secolo e mezzo di studi critici, sono stati coccolati nelle loro certezze di spettatori generalisti e alla fine non si sono annoiati, visto che il finale da feuilleton se non smania interiore è diventato pruriginoso guardare nella serratura di casa Ranieri Leopardi.
Ma il pubblico è sovrano, il problema semmai è chi l’ha portato su questo specifico trono. Il regista Sergio Rubini, che ha firmato soggetto e sceneggiatura con la compagna Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini (David di Donatello per “Viva la Libertà”), difende la scelta di non raccontare la morfologia del corpo di Leopardi, la gobba addirittura “eredità misera”, ma la vitalità del suo pensiero.
Appunto, il suo pensiero. Due sono i pregi in Leopardi- il poeta dell’infinito. Il primo pregio sono gli attori. Il cast funziona anche se non tutti brillano per credibilità di interpretazione. Alessio Boni (conte Monaldo) eccessivamente patetico, Alessandro Preziosi (don Carmine) attento a non scivolare nell’inconsistenza, Leonardo Lidi costretto in un ridicolo Niccolò Tommaseo e Giusy Buscemi (Fanny Targioni Tozzetti) sempre più vittoriapuccinizzata o ancora Cristiano Caccamo un Antonio Ranieri indeciso tra un bohemièn e un ospite del GF.
Fausto Russo Alesi , benché truccato come Vinicio Capossela nel live di “Il ballo di San Vito”, è un ottimo Pietro Giordani, l’eretico e puro mentore e amico del giovane Giacomo, cui è stato sottratto il primato dell’amicizia col poeta.
Leonardo Maltese, nei panni di Giacomo Leopardi, offre un’interpretazione superba. In effetti anche Ettore Cardinali (Giacomo bambino) è straordinario. Maltese, che è stato attore con Gianni Amelio e Marco Bellocchio, è Giacomo Leopardi in tutta la sua incrollabile voglia di giovinezza, nella sua disillusione del corpo, nella sua anima desiderante, nella ineluttabilità del dolore e della morte. L’attore entra nei panni del poeta e lo trasfigura in una fisiognomica suggestiva tanto quanto la bellezza della sua recitazione dei versi e delle frasi di Leopardi. Un vero giovane favoloso.
Sul secondo pregio si innesta tutto l’errore della trasposizione televisiva. Se è ammirevole aver saccheggiato le opere di Leopardi, soprattutto “Epistolario”, “Pensieri” e “Operette morali” fino alla ridondanza della citazione del “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie”, consentendo così un ripasso sempre esaltante delle parole del recanatese, quello che nuoce all’operazione di Rubini è l’operazione di Rubini. I dialoghi sono posticci: mancano le frasi di raccordo tra una citazione e l’altra tanto da chiedersi perché non si sia optato per uno spettacolo di slam poetry a tema opere di Leopardi. Rubini e gli sceneggiatori hanno fatto una scelta ben precisa: basarsi su tutti gli studi critici dissonanti dal canone. Come dire giù Francesco De Santis e viva Raffaele Ascheri, anche se al Leopardi “livido e livoroso” di quest’ultimo si è preferito, a questo punto purtroppo, un improbabile Giacomo ridens.
Il dibattito critico su Leopardi ha una caratura davvero epocale non solo perché il sublime delle sue opere impone l’attenzione verso i classici rumore di fondo dell’umanità (cit. Italo Calvino), ma perché Leopardi è il primo dei moderni. Su questo la critica e la letteratura sono state costrette al confronto per decrittare il proprio presente. Lo stesso duello tra “Canti” e “Operette morali” cominciato da Benedetto Croce, dopo Schopenhauer (che conobbe già nel 1830 le prose) e Nietzsche che cita “A se stesso” nel 1874, approda a Emanuele Severino secondo cui Leopardi mette a fuoco con il suo nichilismo il fallimento della civiltà occidentale. Ma per Rubini un Leopardi nichilista è trascurabile, meglio sorridente. Per carità, Leopardi sorrideva, amava il gelato al limone e amava le donne. Il gelato lo ebbe, le donne no. Leopardi può essere trattato come un’icona pop tranne che non si voglia ridurre il nobile pop ad ambizione di originalità. Peraltro poco convincente e molto romanzo d’appendice con più di una strizzatina d’occhio al triage tanto in voga nell’epoca dell’etica social, vedi il triangolo Fanny- Ranieri- Leopardi o la scenetta da boudoir Ranieri-Leopardi- amante con le tette al vento. Senza citare l’accenno al bacio omosessuale che avrebbe sdoganato certi orientamenti critici finora poco accolti.
I dettagli del diavolo sono i titoli di coda. Davide Rondoni appare come consulente letterario e allora c’è da chiedersi dov’è il Leopardi evocato in questi suoi versi “Poi mi deposita questa poesia tremante/ come una rondine chiusa nel palmo/ un carbone ardente o un cristallo di kryptonite”? Raffaele Cavalluzzi, padre di Carla e raffinatissimo critico, ha dato il titolo alla fiction e avrebbe dovuto darle anche quella spiritualità che lui vede nel poeta e che qui è invisibile. Tranne che si debba vederla, con un certo strabismo, nell’unico aspetto interessante, assieme alla storia del gabinetto Vieusseux, ovvero nella ricostruzione dell’anticlericalismo e dell’ateismo di Leopardi.
Dov’è il poeta degli estremismi, dell’immensità, del dolce naufragio, dell’assenza, del nulla? Il viaggio che di Leopardi fu tormento ed estasi è il vagare tra una carrozza e l’altra? E dov’è Silvia che nella sua mano ignuda e nella tomba mostrava il nodo tra il tutto e il “solido nulla”? E’ una ragazza rossa di capelli senza telaio e senza morte. Un attacco all’iconografia che non risparmia neppure le negre chiome della fanciulla, dopo aver appianato la gobba del poeta. Basta un intervento di lifting per dare spessore ideologico a un personaggio? O il problema è tutto pirandelliano: chi è Leopardi di Rubini, persona o personaggio?
A questo punto si rischia di non uscire dalla questione che si fa ermeneutica, se non dando per buona l’avvertenza, sempre nei titoli di coda, dell’opera liberamente ispirata, delle circostanze casuali e della rielaborazione a fini drammaturgici.
Non si può. Prima dell’avvertenza c’è la responsabilità. Che parte dalla vituperata gobba. Leopardi ha lasciato l’impronta della gobba nella sua opera, come scrive Marcello Veneziani la gobba è “l’antefatto fisico alla sua dolente metafisica”. Non è un elemento distraente del suo animo: è il suo animo. Tanto che alla fine anche Rubini si arrende, fosse solo per una sfuggente sequenza. L’amore per Fanny, le lettere e le poesie del ciclo di Aspasia (infelicissima la battuta messa in bocca a Fanny!) sono il ponte tra il poeta e l’uomo, tra Giacomo e Leopardi. E poi: la gobba, no e il naso di Cyrano de Bergerac, sì? Leopardi ruffiano epistolare di Ranieri è quanto meno un abuso a favore di realitystream. Il tentativo nobile e anche generoso di dare spazio allo scorretto nella lettura di Leopardi è finito in un cul de sac. Per uscirne Rubini si è inventato un sequel che ha fatto annegare la fiction come i poveri versi “O natura, o natura…” urlati da Ranieri-Caccamo, mentre si tuffa nel mare di Napoli con il povero Giacomo in braccio. Che poi il mare in Leopardi non è nemmeno un’immagine ricorrente…
Giacomo Leopardi, A Silvia “e quinci il mar da lungi”.