Di Rino Tommasi conservo i libri, che di frequente rileggo, per quanto io abbia donato alla Biblioteca Civica di Varese in larghissima parte la mia sterminata collezione libraria.
Benché io fossi, dai miei tempi comaschi, vecchio amico di Gianni Clerici, suo inseparabile coéquipier, ho avuto modo di incontrarlo solo nell’anno nel quale Stan Wawrinka vinse il Mille di Monte Carlo.
Rino era nella cabina dalla quale seguiva gli incontri, per le sempre memorabili telecronache (opera sua gran parte del gergo in uso nel campo dello sport dei gesti bianchi) e aveva la faccia piena di vistosi lividi.
Riandando ai suoi trascorsi come organizzatore a livello mondiale nel campo delle dodici corde, sorridendo, gli chiesi se avesse incrociato un peso massimo con lui adirato.
“Magari. Sono solo caduto per le scale”, fu la risposta.
Inattaccabile (scrivendo non sbagliava mai), nelle temutissime Pignolerie per Il Foglio, in tredici anni, non mi era riuscito di coglierlo in errore.
Lo avevo però pescato, per così dire, di rimbalzo. Clerici, difatti, beccato per uno sproposito apparentemente dei suoi (era un magnifico scrittore. ma poco attento ai fatti), mi telefonò per dirmi che lo strafalcione tennistico che avevo denunciato in rubrica era in verità conseguenza di una risposta che gli aveva dato, come per liberarsi dell’impiccio, Tommasi, che in quel momento stava scrivendo e, con ogni probabilità, neppure aveva bene inteso la sua domanda.
Tra le infinite cose per parte mia da invidiare al grande Rino, la lunga intervista a Henry Kissinger, datata 1979. Doveva durare mezz’ora e quasi non finiva più. Il Nostro, di qualsiasi argomento si trattasse, sapeva molto spesso più della persona con la quale si intratteneva che, se intelligente (e figurarsi l’ex Segretario di Stato), finiva per starlo a sentire ben volentieri.