Bella. Una bella mostra, con qualche amnesia, ma in ogni caso chi può non se la perda. Prima dell’inaugurazione c’era stato un fuoco di fila continuo contro Il Tempo del Futurismo 1909 – 2024 alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea; l’intellighenzia l’aveva stroncata con toni pesanti, supponenti, sguaiati. Il 25 settembre Guglielmo Gigliotti su il Giornale dell’Arte aveva addirittura lanciato un appello al neoministro Giuli: ”Non fatela, è una cialtronata!” facendoci sapere “l’arte, se arte vera, non è di destra né di sinistra”, cosa questa che, riferita in particolare ai futuristi lascia perlomeno perplessi, ad esser buoni; poi argomentava la cialtronata dando voce a storici e critici d’arte che insieme a lui non riuscivano a capacitarsi come fosse stato possibile il loro mancato coinvolgimento nell’organizzazione della mostra, da Gunter Berghaus a Claudia Salaris, da Giancarlo Carpi (ha presentato un esposto dopo aver partecipato ai lavori preliminari dell’evento) fino a Massimo Duranti degli Archivi Dottori.
Sta di fatto che una volta inaugurata la mostra gli attacchi sono via via scemati, spariti, cessati improvvisamente, solo un paio di cartucce sparate da lontano, due articoli a firma di italiani su El Pais ed il New York Times con valutazioni sul rapporto tra fascismo e futurismo da far cascare le braccia per la loro scoraggiante banalità.
La mostra si apre con opere dell’800 a ricordarci l’atmosfera in cui nacque la rivoluzione futurista. Da lì si snoda una collezione di 400 opere e di oggetti simbolo dell’immaginario futurista come l’automobile e l’aeroplano. Boccioni, Balla, Carrà, Severini, particolare rilievo ovviamente per Marinetti, tanti i capolavori esposti, non pochi venuti dall’estero. L’esposizione si snoda seguendo un percorso cronologico, molto chiaro, grande risalto viene dato alla pubblicità, con cui l’anima movimentista dei futuristi contaminò l’arte, Depero ovviamente su tutti; c’è spazio per tutte le loro grandi innovazioni cominciando dall’aereopittura, che ridisegnò completamente il modo di vedere e rappresentare il paesaggio, molte le opere di Dottori e Crali. Esposte delle ricostruzioni degli intonarumori di Russolo, mentre una sala è a dedicata all’invenzione della Radio ed a Guglielmo Marconi, ritratto in un grande olio del perugino Alessandro Bruschetti. La mostra si chiude ritrovando tracce del futurismo nell’arte italiana della seconda metà del 900: Schifano, Fontana, Burri, l’arte povera.
La serie ininterrotta di capolavori, in alcuni momenti anche entusiasmante, non impedisce però lo stupore per la mancanza di fatto nella mostra dell’esame del rapporto tra futurismo e politica, che se in Italia significò soprattutto rapporto con il Fascismo, altrove ebbe articolazioni ben diverse nelle forma. Ognuno dia pure la sua risposta, ma è palese che ignorare l’elemento politico rende problematica la messa a fuoco di quella stagione artistica.
Si esce in ogni caso dalla mostra con la consapevolezza piena della grande carica rivoluzionaria del Futurismo, avanguardia che ruppe l’esistente e spinse l’Italia verso la modernità, contribuendo a creare quell’humus culturale da cui nacque poi il fascismo, forma politica con cui l’Italia accelerò un processo di modernizzazione non più rinviabile. Carica rivoluzionaria quella futurista che tradisce però una forte nota di ingenuità, inevitabile in un paese in condizioni di profonda arretratezza, dopo un’unificazione giunta tardi e realizzata male nei lunghi e narcotizzanti anni dei governi liberali.
Il futurismo era comparso nel primo decennio del XX secolo come movimento letterario che celebrava la moderna tecnica quale strumento rivoluzionario. Non si può però non rilevare che questo fenomeno si manifestò solo nei paesi alla periferia del mondo industrializzato, in Italia ed in Russia, e parzialmente in Francia. Nei paesi guida della moderna società industriale, Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania al contrario non nacque alcun movimento futurista. Il futurismo poneva al centro i prodotti della manifattura, cioè mirava ai singoli dispositivi tecnici per attaccare i modi di vita tradizionali, e celebrava i singoli inventori ed ingegneri come geni dell’innovazione tecnica, come eroi della guerra contro la tradizione e la natura. Ed in ciò vedeva un’analogia con l’artista e le sue opere.
È evidente che nei paesi industrialmente avanzati non si poteva più inneggiare in modo così ingenuo a quello che era già realtà, lì il carattere sistemico della tecnologia era infatti ormai comparso da tempo. Qui non si trattava di una singola macchina come un’automobile o un aeroplano, apparsi come meravigliose creature esotiche in un mondo antico, ma si era difronte a strutture anonime molto meno facili da comprendere. Non era più possibile affrontarle con modi d’avanguardia, e come Marinetti usarle a mo’ di arma, bisognava invece impegnarsi nella ben più difficile impresa di trovare un modo per entrare esteticamente in sintonia con queste strutture. L’intesa illusoria con il mondo della tecnica si era manifestata nell’adozione dei suoi principi astratti: uniformità, costruzione distruttiva, freddezza, oggettività.
Nei paesi dove l’industrializzazione era ancora agli albori, nella Russia contadina o nell’Italia, che era al massimo un museo di antichità, al contrario la moderna tecnica poteva essere immaginata come una grande e nuova forza di liberazione.
Di fondamentale importanza è stata comunque in ogni caso l’immagine specifica della modernità fondata sulla tecnica civilizzatrice, così come descritta nei manifesti futuristi. Non si trattava più delle promesse di illuminismo, liberalismo e socialdemocrazia, del futuro regno di sicurezza borghese, benessere, progresso e fortuna. La modernità basata sulla tecnica comportava un approccio duro, che mette a disagio, un’oggettività glaciale al di là di ogni sentimentalismo e umanitarismo. Un animo rivoluzionario perfettamente espresso dalle parole di Gabriele D’annunzio che all’inizio del ‘900 fa appello ad energie terribili, al sentimento di potenza, all’istinto di lotta e di dominio, all’eccesso di forze generatrici e fecondatrici, a tutte le virtù dell’uomo dionisiaco, del vincitore, del distruttore, del creatore.
L’esperienza bellica rendeva ormai plausibile che questa visione della modernità avesse il vantaggio di un maggiore realismo rispetto alle promesse sentimentali del XIX secolo. Le conclusioni che ne trassero sia le avanguardie come il futurismo che il radicalismo politico fu quindi che il programma di una modernità fondata sul progresso tecnico doveva essere preso sul serio, e che non si doveva più prestare attenzione agli obsoleti scrupoli umanitari ottocenteschi. Se c’è un grande scopo, allora è anche permesso tutto quello che è realizzabile sul piano tecnico e fattuale, perché anche i mezzi più estremi scompaiono dietro i grandi propositi. Pertanto, è da preferire una rottura totale con ogni tradizione, convenzione, legame con valori tradizionali, il nuovo rivoluzionario agisce con la precisione e l’indiscutibile razionalità della tecnica anche quando si tratta di questioni umane. Le inibizioni morali appartengono ormai ancora a una tradizione che deve essere razionalmente demistificata dall’azione rivoluzionaria: la guerra sola igiene del mondo.
Secondo tale visione non restava al mondo che la prospettiva di una sua frantumazione sin dalle fondamenta, la sua vera trasformazione era ancora da venire.
Ma se la tecnica aveva una sua valenza rivoluzionaria, rimaneva insoluto, o meglio ignorato dai futuristi, il tema della capacità dell’uomo di gestire la tecnica senza esserne poi dominato. Nei paesi industrialmente più avanzati si era preso atto della forza mortifera della tecnica, che aveva stritolato il suo creatore, l’uomo borghese. La Grande guerra aveva poi definitivamente ucciso lo spirito eroico, trasformando lo scontro bellico da lotta tra guerrieri a conflitto tra materiali. Diventava impossibile così celebrarne la forza rivoluzionaria, emergeva però pressante la necessità di creare una figura umana capace di dominare la tecnica, soggiogandola nello scenario di un mondo che proprio dalla tecnica era stato sconvolto.
Ma nell’Italia del primo novecento non si poteva certo chiedere questo ai Futuristi.
Replica all’articolo sulla mostra “Il tempo del Futurismo”
Il mio professore di italiano, che il dott. Antonio Chimisso ha conosciuto bene, raccomandava di approfondire documentandosi prima di scrivere commentando un evento! Suggerimento che il figlio pare non tenere in considerazione, essendogli sufficiente un presunto spunto utile per far polemica, o contro polemica, ribadendo il suo pensiero decisamente di destra-destra.
Terreno privilegiato, il suo, l’arte, che segue e conosce un po’, ma non tanto, ovviamente privilegiando il Futurismo per gli indubbi, ma non esclusivi, né totalizzanti rapporti col Fascismo, prevalentemente più di convenienza che di adesione ideologica, capitolo importante della nostra storia dell’arte sempre strumentalizzato dalla destra, benché, dopo l’ostracismo del secondo dopoguerra, fu sdoganato dalla sinistra, esaltato alfine come il movimento artistico italiano più importante del ‘900. Del quale si celebra -male- la sua storia nella tanto discussa mostra alla GNAMC di Roma e così Chimisso non poteva non cogliere l’occasione per dire la sua, ovviamente contro i detrattori della medesima. La libertà di opinione, certo anche la sua, però non può fondarsi su errori, pressapochismo e travisamenti. Poiché nella sua recensione su “Barbadillo” mi cita, sollecitato da più addetti ai lavori, rompo il silenzio che mi ero imposto prima di aver elaborato una ragionata recensione dell’evento, per precisare alcune cose.
Poiché abbiamo avuto un comune maestro di componimento, il compianto professor Alfredo, mi concedo la licenza di fare per una volta il maestro, ma di contenuti, non di forma.
Primo errore, il titolo che scrive, ripetendolo nel testo, “Il tempo del Futurismo 1909-2024” è sbagliato: era la prima versione comunicata dal curatore Simongini, che ho il merito di aver subito smontato felicemente alla prima
riunione a distanza del Comitato scientifico, spiegando che era fuorviante storicamente e la continuità del Futurismo fino all’attualità si poteva esprimere in altri modi.
Secondo errore, Gigliotti su “Il Giornale dell’Arte” non è l’autore Gigliotti a lanciare un appello a Giuli di non fare più la mostra, bensì ha pubblicato gli interventi di alcuni membri del Comitato scientifico che auspicavano una riflessione. Ha poi correttamente pubblicato anche dichiarazioni della “controparte”, del curatore Simongini e della direttrice Mazzantini.
Terzo errore, gli storici e critici d’arte che “non riuscivano a capacitarsi come fosse stato possibile il loro mancato coinvolgimento nell’organizzazione della mostra” citandone alcuni fra cui il sottoscritto, ma anche Gunter Berghaus (che non è Jurghen) il cui scritto in realtà compare nell’improbabile catalogo, seppure abbia contestato duramente la mostra,
ebbene quei signori non si capacitavano di ben altro che del loro mancato coinvolgimento essendo stati pregati nell’ottobre del 2023 con lettera del direttore generale Osanna, a nome in particolare del Ministro Sangiuliano di far parte del Comitato scientifico della mostra e dopo aver accettato hanno lavorato intensamente per quasi un anno a costruire la mostra con Simongini e poi con la direttrice Mazzantini, solo in settembre ci viene detto che il Comitato scientifico non è mai esistito, essendosi dimenticati di fare il relativo decreto!
Ma queste notizie, uscite su tutti i giornali Chimisso sembra non averle lette!
Quarto errore: secondo Chimisso, una volta inaugurata la mostra gli attacchi
sarebbero via via scemati, salvo “un paio di cartucce sparate da lontano”, peccato che le due cartucce sono partite dal “New York Times” da “El pais” e poi dimentica “Lavanguardia” Avvenire, Times, Repubblica…e ancora fino ad oggi lunghe recensioni tutte o molto negative o al massimo poco negative i cui testi non parlano
tanto dei rapporti futurismo-fascismo, quanto dei contenuti e delle scelte ordinatorie, visto che il tema dei rapporti col fascismo è storicamente superato ed anzi sostanzialmente “celato“ nella mostra, proprio per paura di attacchi “politici”. Cosa della quale si lamenta proprio Chimisso che denuncia come nella mostra non si evidenzia quello che “significò il rapporto col Fascismo, il che mette “rende problematica la messa a fuoco di quella stagione artistica” contribuendo a creare quell’humus colturale da cui nacque poi il fascismo”!!!, l’accostamento al regime è invece più subdolo: esaltare il contesto di imprese aeree, presentando un enorme idrovolante che, però , è solo una copia dell’originale!, macchine, apparecchi, scoperte ecc. tutte presunte glorie usurpate dal fascismo!
Quinto errore: il “percorso cronologico, molto chiaro”. Non c’è, in realtà, un vero percorso cronologico, saltando le opere di palo in frasca in varie parti del percorso, oltre che la loro collocazione nelle sale tematiche spesso gravemente errata!
Sesto errore: Il Futurismo attecchì solo nei paesi sottosviluppati come l’Italia e la Russia
Contadina. errore: si sviluppò anche in America, Gran Bretagna, Francia, Germania, basta leggere qualche buon manuale sul Futurismo ed anche qualche recensione come quella di oggi, acuta, di una docente universitaria su ArTribune che lamenta proprio l’assenza della diffusione del Futurismo in Europa e nel mondo.
In conclusione, il Prof. Chimisso contando ben sei errori gravi nella composizione avrebbe sicuramente bocciato l’allievo.
Comunque, W il Futurismo,
Il
Mio commento all’articolo sulla mostra del Futurismo vedo che é già scomparso !
La vedrò sicuramente senza preconcetti
E’ online, caro Duranti, buona giornata
Ci scrive Antonio Chimisso: “Davvero lusingato mi sono sentito, e non posso per questo che ringraziare, nel vedere che Massimo Duranti, anima degli Archivi Gerardo Dottori, abbia preso tempo e briga per riflettere sulle mie impressioni dalla visita alla mostra a Roma Il Tempo del Futurismo, la recensione di una persona qualsiasi, non certo di uno specialista della materia, e che gli amici di Barbadillo.it hanno consentito di rendere pubblica, quando su quella rivista intervengo di tanto in tanto, ma in ambiti ben differenti.
Parto da un punto per me fermo: la mostra è bella, con tanti capolavori esposti che da soli meritano una gita a Roma. Punto. Fortissime sono state però le critiche mosse alla mostra ben prima della sua inaugurazione, insomma, senza averla vista; e questo già faceva un po’ pensare.
Le critiche sono venute poi da figure di rilievo del mondo dell’Arte, a quanto pare per lungo tempo coinvolte nell’attività organizzativa, per poi essere state sbrigativamente messe da parte. E qui, chiedo scusa, ma la situazione provoca ulteriori considerazioni: ma come è mai possibile che persone esperte, navigate, abbiano lavorato e collaborato con un sedicente Comitato scientifico senza essersi prima accertati che quel Comitato esistesse davvero e non solo nelle parole di qualcuno? Per prestare la propria opera professionale in genere si firmano dei contratti…
Insomma, la mostra l’hanno fatta, ed è venuta bene, anche senza alcuni illustri esperti…
Poi, per il resto, quanto al giudizio sul rapporto tra politica e futurismo, fascismo e futurismo in Italia, si tratta di interpretazioni, ognuno è ovviamente libero di dare le proprie. Non penso certo di avere la verità in tasca, ribadisco solo che il futurismo fu una delle articolazioni che in Italia ebbe quel fenomeno della prima metà del novecento, dagli aspetti più che molteplici, riassunto nel noto termine coniato da von Hofmannsthal: “Rivoluzione Conservatrice”. E il fascismo fu il figlio politico di quel tempo e di quel clima, non venne certo da Marte per appropriarsi di quello che trovava disponibile. E nell’esaltazione della macchina e della tecnica come mezzo rivoluzionario, che è sicuramente il tema centrale della mostra, la Rivoluzione Conservatrice espresse il suo animo (anche) attraverso il Futurismo in paesi arretrati come Italia e Russia, da noi in assonanza con il Fascismo, laggiù con la Repubblica dei Soviet, quindi un po’ in Francia e Belgio, ma fu di modesto rilievo nei paesi industrialmente avanzati, sia in quelli anglosassoni, che produssero il vorticismo e dove Ezra Pound era più che critico verso il movimento di Marinetti, che in quelli di lingua tedesca. Anzi, alla fine degli anni ’20, mentre i nostri pur fantastici aeropittori si esaltavano per la macchina aeronautica, l’automobile e l’elettricità, in Germania si rifletteva già sulla tragicità del rapporto tra uomo e tecnica, Oswald Spengler, Friedrich Georg ed Ernst Jünger alcuni nomi per tutti. Ecco, magari avvicinarsi agli autori di quel mondo, integrandoli con la lettura di qualche testo serio di storia, da De Felice a Gregor a Sternhell, aiuterebbe molto a capire meglio la storia dell’Italia del ‘900 e delle sue correnti artistiche, futurismo compreso”.
Leggo con stupore che alcuni di coloro che assecondarono la lucida follia di un assessore che chiuse in magazzino l’intera collezione di Dottori in possesso del Comune di Perugia, oggi si ergono a tutori monopolistici del futurista umbro.
Immagino che gli eredi di Marinetti, Depero, Balla, Dottori saranno sollevati della visitatrice priva di preconcetti.
L’impressione che si ricava da tanto starnazzìo – almeno fra i non addetti ai lavori – è che gli starnazzanti odierni sarebbero stati ben zitti se messi a libro paga dal Ministero come curatori anche a risultato (espositivo) invariato.