“Tranquillo ha fatto una brutta fine”, dice un adagio popolare ricalcato su una torbida storiaccia di cronaca realmente accaduta in Italia nei primi anni ‘60, quella del commerciante Tranquillo Allevi, ucciso con una bottiglia di bitter avvelenato dall’amante della moglie. E noi in proposito non ci diffonderemo oltre, non volendo anticipare troppo della vicenda umana e politica del giovane Alden Pyle in Indocina, l’“americano tranquillo” che dà il titolo all’ultimo romanzo di Graham Greene edito da Sellerio (pp. 356, 16 euro).
Racconto autobiografico
Certamente un Greene dedito all’ego-scrittura quello che traspare, quasi “larger than life”, da queste pagine che grondano esperienze autobiografiche, figlio di Raymond Chandler come il suo protagonista, Fowler, lo è di Marlowe, e padre del Lawrence Osborne di “Bangkok” e del “Regno di vetro”. Un Greene mai embedded ma engagé, che odia gli indifferenti (farà addirittura dire a uno dei personaggi di contorno, Heng, con un lirismo simil-gramsciano, “Prima o poi bisogna scegliere da che parte stare. Se si vuole restare esseri umani”, e prima ancora “Io preferisco essere uno sfruttatore che combatte per ciò che sfrutta, e ci lascia la pelle”) e, per la sua posizione sull’Indocina, marcatamente antiamericana e, forse appena più larvatamente, a favore del colonialismo francese, sarebbe piaciuto a Dominique Venner ben più di quanto è piaciuto a Philip Rahv e a Evelyn Waugh – quest’ultimo nel suo diario l’ha definito “un lavoro magistrale, ma spregevole”, per poi correggere un po’ il tiro in una recensione per il “Sunday Times”, etichettandolo come “magistrale, originale e vigoroso”, chiosando però in una lettera personale a Greene “Temo di aver lasciato trasparire la mia antipatia verso Fowler: è una vera merda!”.
Un Greene cinematografico, anche, un po’ “Lanterne Rosse” e un po’ “Dien Bien Phu”, così come “Una pistola in vendita”, altro capolavoro di Greene, fa pensare all’immarcescibile “Il Corvo” non solo perché ne richiama il titolo nel nome, Raven, ma anche per le ambientazioni, e perfino a “V per Vendetta” per la redenzione e il rapporto ambiguamente affettuoso con la co-protagonista. Ma pure un Greene religioso o perlomeno spirituale, che cita ripetutamente Pascal e inciampa nella tentazione di Dio, prima di risolverla – per fortuna sua e di noi lettori – in una delle sue battute fulminanti.
L’incomunicabilità latente
La “greenelandia” è dunque un mondo caleidoscopico, dove i protagonisti (e non solo) in carne e ossa sono tratteggiati con sapienti pennellate, eppure i veri protagonisti sono quasi sempre dei sentimenti o delle sensazioni. Nello specifico, nel mondo fatto di “-ismi e -crazie” de “L’americano tranquillo”, come d’altronde in “Lost in translation” di Sofia Coppola o ne “I pugni in tasca” di Bellocchio, la fa da padrona l’incomunicabilità: quella tra occidentali e orientali, e, in seconda battuta, tra americani ed europei, quella tra militari e civili, quella tra uomini e donne, quella tra superiori e inferiori. Lo afferma lo stesso Greene, attraverso i pensieri di Fowler, a tratti confusi dall’oppio ma lucidi: “Non faremmo meglio a non cercare di capire a ogni costo, ad accettare il fatto che nessun essere umano ne può davvero capire un altro, che una moglie non capisce suo marito, un innamorato la sua amante, un genitore suo figlio? Forse è per questo che gli uomini hanno inventato Dio, un essere capace di comprendere. Forse, se volessi essere capito, o farmi capire, come un babbeo finirei per convincermi di possedere una fede, ma io sono un cronista; Dio esiste solo per chi firma gli editoriali”. Esiste allora qualche sparuta speranza di salvezza individuale, magari l’Amore? Impossibile, perché “Impossibile [è] amare in mancanza d’intuito”.