In un libro che dalla fine degli anni ’60 è rimasto per il lettore italiano quello di riferimento, lo storico, reporter e – fra l’altro – ufficiale di collegamento fra forze alleate e resistenza in Liguria, Basil Davidson fece questa dichiarazione di intenti: “Presentare un sommario di quel che oggi si conosce su idee e sistemi sociali, religioni, valori morali, credenze magiche, arti e metafisica di tutta una serie di popoli africani, soprattutto dell’Africa tropicale. Poi, esaminare i modi in cui si sono sviluppate e trasformate dal lontano passato ad oggi. Infine, inserire questi aspetti della civiltà africana nella loro prospettiva odierna come parti coerenti di un tutto vitale”.
Fuori dai pregiudizi coloniali, con La civiltà africana (Einaudi, 1971), e una vasta opera divulgativa cui associò una serie di documentari, Davidson raggiunse pienamente il suo scopo .Non è che con gli anni il libro – per altro non strettamente accademico ancorché adottato da numerose Università – sia stato fiancheggiato da molti altri studi. C’è stata piuttosto nel 1997 un’edizione aggiornata La civiltà africana.
Prima di questo testo si poteva fare riferimento alla Storia della civiltà africana (Einaudi, 1950 e Adelphi, 2013) di Leo Frobenius, etnologo, artefice di vari istituti, in corrispondenza con Ezra Pound sulle questioni dell’economia, autore nel 1910 del magnifico compendio di leggende africane Il Decamerone Nero (Rizzoli, 1971), uno dei libri che influenzarono il concetto di Négritude da Aimé Césaire a Léopold Sédar Senghor, secondo i quali Frobenius “aveva restituito all’Africa la sua dignità e identità”: la frase “ogni volta che in Africa muore un vecchio si perde un’intera biblioteca” pare fatta per rappresentare il contenuto di Der schwarze Dekameron.
Libri come quelli di Frobenius e Davidson hanno sconvolto la nociva diceria che voleva “il negro selvaggio”, calcolando come visioni esotiche, tutt’al più decorative, le tradizioni e le arti africane. Non sono mancati anche libri e opuscoli che, trafficando politicamente – a cominciare da Malcolm X – con l’idea stessa della civiltà africana, hanno mostrato un pregiudizio uguale e contrario a quello colonialista, contrabbandando per orgoglio pretese supremazie.
Viene da pensare a questo punto al libro di un grecista della Cornell University, Martin Bernal, che alla pubblicazione suscitò discussioni, benché molte volte non si andasse al di là del provocatorio titolo, AteneNera (Pratiche editrice, 1992).
Bernal individuava due modelli storiografici, “l’antico”, elaborato dagli stessi greci, e “l’ariano”, intriso di romanticismo non meno che da elementi esterni e ideologici come il razzismo. Per altro Bernal arriva a sostenere che anche le lingue indoeuropee abbiano un substrato di origine africana.
Le sue tesi furono contestate da vari “classicisti” e principalmente nel volume collettivo BlackAthena Revisited (1996).
Con la Storia africana dell’Africa della giornalista sudanese Zeinab Badawi – laureata a Oxford, già presidente della Royal African Society e collaboratrice della Bbc, presso la quale ha ospitato The History of Africa, una serie di documentari basati sui rapporti dell’Unesco e la Storia generale dell’Africa che ne è conseguita – abbiamo oggi un saggio di ottima divulgazione, che incorpora nel testo l’esperienza che l’autrice ha sviluppato sia con gli studiosi africani che con i custodi della tradizione orale.
La storia dell’Africa è la storia delle origini della civiltà umana, ma poco si discute della sua storia antica e moderna, soffocata dai rendiconti occidentali di povertà, schiavitù e colonialismo, così che si ignorano le avvincenti storie di regine guerriere, di potenti civiltà, di edifici sontuosi e vivaci mercati, mentre l’Africa è molto di più di quel che pensiamo.
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